DONAZIONI IN ITALIA – Stiamo diventando più avari? Abbiamo smarrito il piacere del dono come puro e semplice gesto di solidarietà? I dubbi sono legittimi in un Paese che, contrariamente all’etichetta di “italiani brava gente”, mostra una scarsa propensione alla filantropia, sotto qualsiasi specie. I confronti internazionali sono imbarazzanti. La cifra complessiva delle donazioni in Italia non supera i 3,5 miliardi di euro l’anno, in America siamo a 66 volte di più e in Germania a 30 volte. Inoltre, secondo una ricerca della Doxa sui Comportamenti di donazione della popolazione italiana, la quota di cittadini che hanno donato qualcosa è crollata dal 45 per cento del 2004 a meno del 30 per cento del 2013. «C’è sicuramente un effetto Grande Crisi che incide in questi comportamenti» commenta Valeria Reda, responsabile della ricerca «Ma bisogna anche aggiungere che, di fronte alla recessione, gli italiani scelgono di aiutare il vicino più prossimo, che vedono in difficoltà sotto casa, e si allontanano dalla rete delle associazioni della filantropia».
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I DATI SULLE DONAZIONI IN ITALIA E NEL RESTO DEL MONDO – Se andiamo a scomporre i dati sulle donazioni, scopriamo i motivi più profondi di una tendenza che fotografa un Paese di avari. I primi a chiudere i cordono della borsa sono i cittadini più ricchi. In America, per restare al caso più virtuoso, donano il 97 per cento di coloro che possiedono da uno a cinque milioni di dollari e il 67 per cento di persone con meno di 100mila dollari di reddito. Che cosa significa? Semplice: un cittadino degli Stati Uniti, che ha avuto successo nella vita ed ha accumulato ricchezza, sente il dovere, sì: il dovere, di restituire qualcosa ai meno fortunati attraverso il meccanismo delle fondazioni e delle donazioni. Non c’è imprenditore di rango, in America, che non abbia messo in piedi una sua organizzazione filantropica o non abbia fatto importanti donazioni a istituzioni pubbliche, dalle università ai musei. Il caso più eclatante, ma non unico, è quello di Bill e Melinda Gates che finora hanno versato alla loro fondazione, impegnata in Africa su diversi fronti, dalla lotta contro l’Aids alle cure per la tubercolosi e la malaria, qualcosa come 40 miliardi di dollari. Una cifra enorme, anche per personaggi super ricchi come i Gates. «Ma noi lo sappiamo da sempre: la maggior parte del nostro patrimonio dobbiamo restituirla alla società che ci ha fatto diventare ricchi» dice Melinda Gates. Al contrario, in Italia i ricchi, o le persone molto benestanti, tendono a nascondere il livello di benessere raggiunto e comunque non sentono alcun obbligo di restituzione. «Nella cultura anglosassone la filantropia fa parte del percorso formativo di un ragazzo, che la impara già nei primi anni di scuola, e da quel momento la considera un pezzo delle sue conoscenze» spiega Chiara Blasi, per anni responsabile del fundraising della onlus internazionale Amref e oggi direttore dell’area Sviluppo dell’università Luiss «Inoltre nessuno si sente osservato speciale, né dalla società né dal fisco, per la sua ricchezza, e non ha alcuna preoccupazione di mostrarla». Anche l’opera di bene, così, entra in una sorta di cono d’ombra, e non rappresenta, come avviene nel mondo anglosassone, un modello da emulare: peggio ancora se, come sembrava in un primo momento, le donazioni sono considerate dall’Agenzia delle entrate come uno degli elementi che inducono a presumere alti livelli di redditi.
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DONAZIONI E BENEFICENZA – A proposito di tasse, l’altro elemento che viene fuori dalla ricerche e dalle esperienze sul campo sulla scarsa tendenza alla filantropia degli italiani, è la secca smentita di un luogo comune. Si dice: facciamo poche donazioni perché non ci sono i relativi incentivi fiscali. Non è vero. Innanzitutto, le erogazioni in America sono soggette a un tetto, il 50 per cento del reddito, perfino più basso di quello italiano. Ma poi sono gli stessi cittadini a non mostrare particolare interesse per l’aspetto fiscale della filantropia. Tra le prima dieci cause che incidono sugli scarsi valori delle donazioni, il fisco non compare, né il vantaggio in termini di minori tasse da versare viene considerato una delle motivazioni che spingono alla filantropia. Semmai, gli italiani hanno fatto un passo indietro negli ultimi anni per la scarsa disponibilità delle risorse (45 per cento), sulla quale ci sarebbe tutto da discutere, e per una crescente diffidenza rispetto all’uso dei fondi.
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Sommando quelli che non aprono il portafoglio perché non si fidano della trasparenza dell’utilizzazione dei fondi (39 per cento) con quanti ritengono che la donazioni, in quanto tali, non servano (12 per cento) si arriva a più della metà degli italiani. Il popolo degli scettici. Cittadini che, magari anche per una cattiva esperienza vissuta in prima persona, non credono nel meccanismo della filantropia e nella reale efficacia dell’uso dei fondi. Gli scandali in materia non mancano, e sicuramente per migliorare il clima di fiducia tra i potenziali donatori e l’universo delle varie associazioni beneficiarie, bisognerebbe spingere al massimo sulla leva della trasparenza. Ciascun intervento per il quale si chiede un contributo, pensiamo a un pozzo d’acqua in Africa o alla costruzione di un ospedale, andrebbe rendicontato sul web. Con tutte le cifre, dai soldi donati a come sono stati spesi, voce per voce. E chissà che, attraverso una maggiore visibilità del percorso, una maggiore chiarezza sul “dove finiscono i soldi”, gli italiani non inizino a ripensarci per tornare a scoprire il piacere di donare.
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