Basta sprechi: la Banca del Mezzogiorno è un carrozzone. E i suoi soldi vanno al Nord

La Banca del Mezzogiorno dovrebbe aiutare proprio quelle imprese del Sud, piccole e medie, che fanno fatica ad accedere al credito ordinario. Altrimenti non ha ragione di esistere

Il Mezzogiorno ha una banca che sicuramente non serve al Mezzogiorno. E probabilmente non serve a nessuno, salvo a chi incassa stipendi o emolumenti vari. Per scoprire questo tipico mistero dell’Italia all’incontrario, che finge di fare passi avanti e poi si tuffa all’indietro, basta partire dal sito della Banca del Mezzogiorno, nata dopo gli annunci in pompa magna dall’ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti nel 2007 e diventata operativa appena (sic!) cinque anni dopo, cioè nel 2012. Sul sito compare scolpita la sua fisionomia e la sua funzione. Testuale: «E’ un’istituzione finanziaria che ha la missione di sostenere, con il credito, i progetti di sviluppo delle piccole e medie imprese del Mezzogiorno».

Piccole e medie imprese del Sud, chiaro, no? E invece, passando dal mondo del web, quello virtuale, a una relazione della Corte dei Conti che ha passato al setaccio l’attività dell’istituto, il mondo reale, si scopre che nel corso del 2012, l’87 per cento delle richieste di finanziamento da parte delle imprese del Sud alla Banca del Mezzogiorno, di fatto quasi tutte, sono state rifiutate. Non solo. Tra i fortunati destinatari dei crediti della Banca del Mezzogiorno, compaiono invece grandi gruppi industriali, dalla Fiat all’Ansaldo, o grandi società come l’Enav, che certo avranno mostrato ottime credenziali per ricevere prestiti, ma non si capisce perché debbano avare questi soldi da un istituto nato con altri, e ben definiti, scopi, approvati dalla Banca d’Italia al momento di concedere l’operatività alla Banca del Mezzogiorno.

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Non a caso, circa la metà dei prenditori dei soldi messi sul tavolo dalla Banca del Mezzogiorno non risultano neanche residenti nel Sud. La somma di anomalie, e di sprechi, sia in termini di risorse sia dal punto di vista delle opportunità mancate, ha la sua genesi già nell’atto di nascita della Banca del Mezzogiorno. Tremonti, nel momento del suo massimo potere, la presenta e la immagina in grande, con ben 7.500 sportelli operativi nelle regioni meridionali, un gigantesco network per rilanciare l’intera economia del Sud. Passano gli anni e la montagna partorisce il topolino. Prima si discute sui possibili azionisti di controllo (banche popolari? Cassa depositi e prestiti?), poi si mettono in piedi, tra il 2009 e il 2010, comitati di esperti, supportati dai tradizionali, e costosi, piani di fattibilità della McKinsey, e infine si incardina la Banca del Mezzogiorno nel Mediocredito Centrale che alla fine del 2010 viene poi assorbito da Poste Italiane.

Un lungo pasticcio, ma almeno a quel punto almeno si arriva a capire chi è il dominus dell’ambiziosa scommessa: le Poste, a partire dall’amministratore delegato Massimo Sarmi che infatti prima fa parte del comitato degli esperti e poi diventa presidente della Banca del Mezzogiorno. Al suo fianco nel consiglio di amministrazione, oggi compaiono l’amministratore delegato Pietro D’Anzi (ex capo di Barclays Italia), il manager Andrea Peruzy, segretario generale della Fondazione Italianieuropei, creatura di Massimo D’Alema, e due dirigenti delle Poste, Paolo Luca Stanzani Ghedini e Paolo Martella, mentre è completamente scomparso dal ponte di comando della Banca, e questa è un’altra anomalia, un qualsiasi rappresentante dell’azionista numero uno, il ministero dell’Economia.

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Il primo anno di concreta attività dell’istituto, il 2012, si conclude con un lieve utile, pari a 7,1 milioni di euro, ma con scarse, scarsissime erogazioni di crediti (che in tutto sono stati pari a 179 milioni di euro) concessi secondo i criteri fissati nell’atto di nascita della Banca del Mezzogiorno. La Corte dei Conti, nel denunciare la paradossale attività dell’istituto, aggiunge anche altre osservazioni sulle quali vale la pena riflettere. Primo: il management della Banca giustifica, in qualche modo, la pioggia di no alle domande dei piccoli e medi imprenditori del Sud con il fatto che nel Mezzogiorno un’azienda su tre risulta in perdita e quelle in attivo hanno spesso crediti verso la pubblica amministrazione. Ma è una giustificazione che non regge, anche sul piano logico: la Banca del Mezzogiorno dovrebbe aiutare proprio quelle imprese, piccole e medie, che fanno fatica ad accedere al credito ordinario o hanno problemi di liquidità più che di cattiva gestione o di prodotti non competitivi. Altrimenti non ha ragione di esistere. E’ chiaro che la selezione va fatta con prudenza e attenzione, magari accompagnando e ascoltando gli imprenditori che bussano alle porte della Banca, rappresentate sul territorio da una rete di 245 sportelli delle Poste.

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E qui arriva la seconda osservazione della Corte dei Conti, che si limita a registrare il numero dei dipendenti della Banca del Mezzogiorno: 223 persone, con un incremento di 40 unità rispetto al 2011. Ora, non ci vuole un consulente della McKinsey per capire che qualcosa di molto profondo non funziona in questo rapporto tra l’organico della Banca e la sua attività istituzionale. Possibile mai che su 223 dipendenti nessuno sappia fare bene le istruttorie per concedere i crediti e selezionare quelle imprese, piccole e medie, che possono avere ossigeno vitale dalla Banca del Mezzogiorno? E allora che cosa fanno i 223, in concreto? Firmano e passano carte e pratiche “facili” da esaminare?

Dopo i rilievi della Corte dei Conti, intanto, nei giorni scorsi è arrivato il comunicato stampa con i risultati del bilancio 2013 della Banca del Mezzogiorno. Alleluia, si potrebbe titolare: l’utile netto è salito da 7,1 milioni a 11,6 milioni. E i crediti alle piccole e medie imprese del Sud? Briciole, come nel 2012. Piuttosto l’istituto si è allargato nella sua attività e si è messo a concedere prestiti ai dipendenti delle Poste sul quinto del loro stipendio. Nobile attività, anche redditizia per la Banca visto che di tratta di debiti garantiti dallo stipendio passato dalle stesse Poste, ma anche in questo caso del tutto estranea alla missione dell’istituto. Un istituto che quando nacque fu accompagnato da una solenne promessa di Tremonti: «Non faremo un carrozzone». Un impegno mantenuto, perché visti i fatti la Banca del Mezzogiorno sembra solo un carrozzino.

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