Appalti pubblici, una babele di leggi in cui naviga la corruzione

In Italia le norme in materia sono il doppio di quelle di Paesi dell’Unione europea come la Francia e la Germania, e il triplo rispetto alla Gran Bretagna. Non solo. Il risultato è una corruzione stimata attorno ai 60 miliardi di euro

Troppi controlli, nessun controllo. Troppe leggi, nessuna legge. Troppi passaggi, poca trasparenza. L’intero universo degli appalti pubblici, con tutte le sue ombre e con la valanga di inchieste giudiziarie che ne mettono in discussione la legalità, gravita attorno a tre debolezze. Tutte poi convergenti verso un risultato finale che coniuga bassa efficienza e alta corruzione. L’eccessiva quantità di norme che hanno investito negli anni il settore, come ricorrenti cicloni, è stata recentemente denunciata da Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei Conti. «L’eccesso di legislazione ha fatto sì che nei gangli del sistema si inserisca la corruzione» ha detto Squitieri durante una recente audizione in Parlamento. E ha evocato una significativa citazione di Tacito: «Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto».

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Né deve meravigliare che una denuncia così pesante arrivi proprio dal vertice di uno dei soggetti fondamentali del nostro ordinamento in materia di controllo della legalità nell’area della spesa pubblica, e dunque degli appalti: in fondo, anche Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, dice la stessa cosa. E denuncia una giurisdizione ottocentesca, da riformare, snellire, semplificare, unificare. Senza con questo eliminare la funzione stessa del controllo. Da una statistica attendibile risulta che in Italia le norme in materia di appalti pubblici siano il doppio di quelle di Paesi dell’Unione europea come la Francia e la Germania, con culture sul rapporto tra Stato e privati simili alla nostra, e il triplo rispetto alla Gran Bretagna. Non solo. Il risultato di questa babele di leggi e norme è una corruzione stimata attorno ai 60 miliardi di euro, un record europeo che condividiamo con la Grecia, fallita proprio perché schiacciata dal peso dell’illegalità.

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Ogni norma, ogni legge, in un appalto pubblico evoca un soggetto che decide, e quindi un potenziale potere di interdizione. Qui si annida quasi un incentivo alla corruzione. Le stazioni appaltanti in Italia, che dispongono di risorse pubbliche per finanziare appalti e hanno così un potere decisionale in materia, sono ancora 21.000, con uno sfarinamento sul territorio che apre ulteriori varchi all’illegalità. Non hai il tempo di superare un traguardo, e immediatamente devi chiedere una nuova firma, una nuovo permesso, una nuova autorizzazione. E se qualcosa non quadra, a partire dal concorrente sconfitto che non vuole ritirarsi a mani vuote, allora ecco un secondo livello di giurisdizione: quella amministrativa, dai Tar al Consiglio di Stato. Al momento presso i tribunali regionali amministrativi sono depositati 350mila fascicoli in attesa di sentenze, di questi circa un terzo riguardano appalti pubblici.

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Attorno ai ricorsi al Tar (primo grado di giudizio) e al Consiglio  di Stato (secondo grado) è sorta una vera e propria industria del contenzioso con danni enormi sui tempi di realizzazione delle opere, con i cantieri spesso bloccati proprio dai ricorsi, e anche sulla trasparenza dei lavori. L’unico deterrente che i nostri governi sono riusciti a mettere in campo per contenere il diluvio dei contenziosi amministrativi è quello dei costi per presentare i ricorsi (marche, bolli, contribuiti), schizzati per migliaia di euro: un passo falso, perché colpisce le piccole imprese, le più deboli, già in fila per ottenere sgravi con una sentenza della Corte di Giustizia europea.

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In realtà in Italia c’è un solo modo per sfuggire, negli appalti pubblici, alla doppia tagliola delle troppe leggi e della burocrazia: la corsia della deroga che, in nome dell’emergenza, azzera tutto. Compresa la legge. Quando è venuto fuori lo scandalo dell’Expo di Milano si è scoperto che, a fronte di tante norme e stazioni di controllo, ci sono stati 72 appalti, per un totale di circa 1 miliardo di euro, assegnati senza neanche pubblicare un bando di gara. Tutto in deroga. La cosa singolare è che questa scelta è stata fatta già nel 2007, quando sono stati assegnati i primi appalti. E la domanda è ovvia: come si spiega una deroga nel nome dell’emergenza a otto anni dall’evento? In un solo modo: bisognava aggirare la legge, e questa era la strada giusta per farlo.

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Infine, nella barocca costruzione di un sistema di porosa vigilanza sugli appalti costruito per strati successivi e comunicanti, non potevano mancare le note Autorità indipendenti di controllo. Solo recentemente l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha assorbito le funzioni di quella sugli Appalti Pubblici che in più di vent’anni di vita non ha lasciato alcuna traccia della sua esistenza. In pratica, è come se non ci fosse stata, anche perché una buona parte delle sue funzioni si andavano a sovrapporre con i ruoli assegnati ad alcune direzioni generali del ministero. Un inutile doppione. Non a caso gli ultimi cinque ministri dei Lavori Pubblici, compreso l’attuale, Maurizio Lupi, hanno tutti chiesto di riformare e accorpare le Autorità di controllo e di garanzia che negli anni sono diventate 19, tre in più dei ministeri.

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Sono strutture che costano, con stipendi, dei vari componenti e dei dirigenti, altissimi, e con spese che non sono sfuggite alla censura della Corte dei Conti. Forse, con l’arrivo di Cantone e con l’investimento politico che Matteo Renzi ha voluto fare sulla sua Authority Anticorruzione, si arriverà a una semplificazione del quadro di questi organismi, dove si rischia tra l’altro di sprecare denaro pubblico. E forse arriverà l’unica legge, nell’oceano di tante norme, che invece ancora manca: un breve e chiaro testo per regolamentare l’attività dei lobbisti. Solo in Italia, dove abbiamo fatto gli albi professionali anche per i chiromanti, questo mestiere è esercitato senza alcuna legge di riferimento. Alla faccia della trasparenza e dalla lotta alla corruzione.

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