Conferenza di Parigi: sul clima o si cambia o il mondo rischia. Sarà un nuovo flop?

L’Europa è avanti, ma sta tornando il carbone. L’America è bloccata dal voto per la Casa Bianca. La Cina non vuole impegni. L’India è assente. Come faremo a ridurre le emissioni di gas serra per non abbassare il clima oltre i 2 gradi?

CONFERENZA CLIMA PARIGI –

Ci siamo. L’appuntamento con la Conferenza di Parigi, che si apre il 30 novembre e termina il 15 gennaio, è ormai arrivato con 190 paesi seduti attorno al tavolo nel tentativo di dare una risposta concreta, e non i soliti appelli di rito, al surriscaldamento globale, diventato ormai una priorità nel mondo inquinato. Senza interventi correttivi, ricordiamolo, si rischia di aumentare le temperature di 5 gradi entro il 2050, mentre da Parigi dovrebbe uscire un impegno di bloccare questo aumento a non  più di 2 gradi. Intanto, e lo abbiamo capito sulla nostra pelle, il 2015 sarà ricordato come l’anno più caldo nella storia della terra.

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CONFERENZA SUL CLIMA DI PARIGI: GLI OBIETTIVI DA RAGGIUNGERE –

Entrando nel merito dei dossier sul tavolo di Parigi, la riduzione delle emissioni di anidride carbonica vede i paesi molto divisi. L’Europa è più avanti e può considerare vicino l’obiettivo di ridurre i gas serra del 40 per cento rispetto al 1990. Ma a quale prezzo? La contraddizione sta nel fatto che l’Europa ha speso molto, in termini di incentivi pubblici, per fare spazio alle fonti rinnovabili (talvolta cavalcate dalla speculazione dei fondi finanziari) ma molti paesi per bilanciare l’alto costo di questa fonte stanno spingendo sul consumo di carbone, altamente inquinante. Una schizofrenia non da poco. Altrettanto contraddittoria è la posizione dell’America. Barack Obama si è presentato ed è stato eletto come un presidente green, ma concluderà i suoi due mandati con scarsissimi risultati, a parte il veto al maxi-oleodotto in Canada molto spinto dall’industria petrolifera. Inoltre la Casa Bianca entra nel ciclo della paralisi, fino all’insediamento nel gennaio del 2017 del nuovo presidente, che se sarà un repubblicano di certo non spingerà a una politica ambientale più favorevole ai tagli di emissioni. La Cina è sempre ambigua nella sua politica ambientale. A parole annuncia, come ha fatto in occasione della presentazione del nuovo piano quinquennale, massicci investimenti green, ma nei fatti non vuole prendere impegni vincolanti. Chiede le mani libere, e intanto è il primo paese inquinatore del mondo. L’India, infine, fa ancora peggio, e non sarà presente al vertice di Parigi.

CONFERENZA SUL CLIMA DI PARIGI: I FINANZIAMENTI –

Il secondo nervo scoperto della Conferenza riguarda i finanziamenti, circa 800 miliardi di dollari l’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a fare gli interventi necessari per il taglio delle emissioni. Qui siamo al bivio: o i paesi più ricchi si decidono ad aprire il portafoglio, cosa non facile considerando il quadro economico globale ancora molto fragile, oppure il surriscaldamento andrà avanti a ritmi insostenibili per l’assenza al tavolo di una parte del mondo tra le più inquinate.

LE POLITICHE AMBIENTALI DEI DIVERSI PAESI –

Che dire? Dobbiamo conservare l’ottimismo della volontà e sperare che dal summit di Parigi esca qualcosa di chiaro e forte. Le circostanze generali sono promettenti: gli allarmi, senza scivolare nella retorica catastrofista che non fa bene al vero ambientalismo, dovrebbero indurre ad agire, sappiamo tutto dei rischi che il mondo corre senza intervenire sul surriscaldamento e senza ridurre le emissioni. Abbiamo alcune circostanze favorevoli, come il basso prezzo del petrolio e la scarsa convenienza a produrlo in questo momento. Ma lo spettro del fallimento del precedente vertice di Copenaghen è dietro l’angolo e non abbiamo alcuna certezza che non ci sia a Parigi un fiasco bis. Speriamo solo che i delegati di 190 paesi la smettano in questi vertici di sprecare soldi dei loro stati a colpi di camere in alberghi a cinque stelle e conti ai ristoranti per pranzi e cene e a base di champagne e caviale.

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