Ogni volta che torno in Cina aumenta il mio sgomento. A Pechino faccio perfino fatica ad orientarmi, a ritrovare l’albergo dove ho dormito durante l’ultima visita, il mercatino dove avevo acquistato una teiera smaltata, l’angolo di un hutong miracolosamente sopravvissuto alla costruzione di un nuovo grattacielo. Ogni volta mi accorgo che un pezzetto di città è scomparso, divorato da un cantiere che non lascia alcuna traccia del passato, secondo la legge del turbocapitalismo in versione cinese dove conta solo il futuro, lo sviluppo economico, ed edilizio, a qualsiasi prezzo. Ma nonostante la censura che copre qualsiasi forma di protesta spontanea e popolare, adesso la Cina, per la prima volta dall’esplosione del boom, sta facendo duramente i conti con il prezzo più alto pagato per il suo modello di sviluppo: l’inquinamento. Del tutto fuori controllo. Pechino è una città buia, giorno e notte, avvolta in una cappa di smog che rende l’aria irrespirabile, e la questione ambientale è diventata ormai una delle priorità dei programmi politici nazionali e locali.
Quella cappa grigia contiene un veleno, le polveri sottili, che non perdona. Secondo le autorità municipali di Pechino capita spesso che il PM2,5, che misura appunto le polveri sottili contenute nell’atmosfera, superi la quota dei 700 microgrammi per metro cubo, ma i dati che arrivano dalla centralina installata all’interno dell’ambasciata americana parlano di oltre 900 microgrammi per metro cubo.
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In ogni caso sono numeri spaventosi, se si pensa che la qualità dell’aria per essere considerata soddisfacente, secondo i parametri dell’Organizzazione mondiale della Sanità, deve avere valori di polveri sottili inferiori ai 50 microgrammi per metro cubo. La situazione non è molto diversa in altre metropoli cinesi come Shanghai, Nanchino, Chongqing, Wuhan, Urumqi: nella classifica delle dieci città asiatiche più inquinate, ben sette sono cinesi. E il governo del turbocapitalismo comunista è stato costretto a diffondere i dati relativi ai danni sanitari collegati all’inquinamento, anche se li ha circoscritti ai rilevamenti in sole dieci città-campione. Qui, nel 2012, i morti per smog sono stati 8.500, una vera strage degli innocenti, e i casi di tumore al polmone sono aumentati del 60 per cento nell’ultimo decennio.
L’ORIGINE DI QUESTO SCEMPIO. Dove ha origine il devastante inquinamento cinese? L’industrializzazione a tappe forzate, abbinata a un processo migratorio dalla campagna alle città (oggi Pechino è una metropoli di 25 milioni di abitanti), è stata alimentata da un sistema energetico obsoleto. Con il risultato che la Cina, seconda economia del pianeta e primo mercato automobilistico mondiale, ha un parco industriale altamente inquinante e un traffico stradale, con relativo smog, in costante espansione. Oltre il 70 per cento dell’energia del Paese deriva dalla combustione di carbone, ed è per questo che la Cina è balzata al primo posto tra i paesi responsabili di emissioni di gas serra. Un primato che le autorità politiche hanno sempre fatto finta di ignorare, respingendo qualsiasi politica ambientalista che avrebbe messo a rischio, secondo questi calcoli miopi, la progressione della crescita economica nazionale.
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Oggi il re è nudo. La Cina deve fare i conti con l’inquinamento che compromette la qualità della vita quotidiana, e alimenta fenomeni di dissenso politico e di proteste popolari che il regime considera pericolosi almeno quanto l’aria avvelenata. Ma i rimedi, per il momento, sono ancora molto fragili e si esauriscono in una serie di divieti, alcuni anche piuttosto goffi. Centinaia di fabbriche sono state chiuse, perché giudicate “pericolose” per gli scarichi che producevano. A Pechino ogni giorno c’è un nuovo “consiglio” da parte delle autorità municipali. Si passa dal suggerimento di non utilizzare la bicicletta per gli spostamenti agli inviti di indossare maschere di protezione, dall’appello a rimanere a casa, quando le polveri sottili nell’atmosfera toccano i livelli record, a forti limitazioni del traffico nelle ore di punta. Ma può anche capitare di chiedere agli studenti di non passare il tempo della ricreazione in cortile e agli anziani di restare tappati in casa e non respirare vicino alle finestre. O, peggio, succede che viene introdotto il divieto di cucinare nelle strade gli spiedini di carne, uno dei piatti più amati dalla popolazione, e di vendere i fuochi di artificio in occasione del capodanno cinese, uno degli appuntamenti più attesi dai cittadini. L’unico elemento positivo, a proposito della reazione dell’establishment, riguarda il fatto che, finalmente, sugli organi di informazione il tema dell’inquinamento non viene più nascosto o dissimulato, come quando lo smog urbano veniva definito come semplice “nebbia atmosferica”. «Per costruire una Cina fiorente bisogna iniziare dal respirare sano» ha scritto, in prima pagina, il Quotidiano del Popolo, giurando che i temi ambientali sono ormai entrati nell’agenda politica del governo e delle amministrazioni locali. E contro lo smog la Cina sta ripensando anche le sue scelte in campo urbanistico, a partire proprio da quei grattacieli che qui si costruiscono in pochi mesi. Nella città di Wujang è stato appena progettato un edificio alto 354 metri e dotato di un vero polmone artificiale, capace di respirare e attirare al suo interno luce artificiale, con una riduzione dei consumi energetici pari al 60 per cento rispetto ai grattacieli tradizionali.
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D’altra parte, come dicevo, l’inquinamento spaventa anche per le reazioni che può generare nell’opinione pubblica. Non è più soltanto il dissidente cinese Ai Weiwei a protestare con le sue performance ballerine in piazza. La foto di Chen Guanbiao, un miliardario filantropo, ha fatto il giro del mondo: lui, in strada, a vendere lattine e barattoli di aria pura, prelevata nella provincia dello Yunnan, alla cifra neanche tanto simbolica di 5 yuan, 60 centesimi di euro. «Non voglio diventare ricco con questo affare, ma richiamare l’attenzione su un problema che rischia di rendere infelice il mio popolo» da detto Guanbiao. E lui non è né un dissidente, coccolato dalla stampa occidentale, né un anticomunista tollerato dal regime. Appartiene all’establishment cinese, ed è diventato molto ricco grazie a una fiorente attività nel settore del riciclo dei rifiuti. Può dunque permettersi il lusso di giocare a carte scoperte, senza il timore di scomuniche. E senza abusare dei suoi privilegi come, invece, sembra che abbiano fatto diversi dirigenti del partito e del governo. Il gruppo Broad, una delle più importanti aziende del Paese nel settore dei depuratori d’aria e dei climatizzatori, ha fatto sapere di avere venduto centinaia di apparecchiature per la purificazione dell’aria installate all’interno di Zhongnanhai, il compound dove vivono e lavoro i più importanti dirigenti del Paese. «E’ una benedizione che i nostri depuratori siano utilizzati per creare un ambiente sano e pulito per i leader dello Stato» hanno fatto sapere dalla Broad, annunciando il successo della fornitura. Ma per quanto tempo ancora l’aria pulita, in Cina, potrà essere il privilegio di una minoranza? Su questa domanda si gioca un pezzo del futuro del turbocapitalismo cinese.