In Italia c’è sempre spazio per un garante, specie se a caro prezzo. Nel decreto governativo sull’Ilva di Taranto si legge che il garante nominato dal governo (“una figura di indiscussa indipendenza, competenza ed esperienza”) porterà a casa uno stipendio annuo di 200mila euro per tre anni. Totale: 600mila euro, una bella somma per vigilare sull’attuazione di un decreto, per quanto complesso e delicato. E qui siamo al primo interrogativo: era proprio indispensabile pagare a peso d’oro un ruolo di garanzia di questo genere? Sull’Ilva tutti si riempiono la bocca di belle parole come “spirito di servizio”, “Interesse pubblico“, “bene comune”. E allora perchè non individuare una persona che, appunto con spirito di servizio e non per guadagno, si impegni a contribuire al salvataggio dell’azienda e dei relativi posti di lavoro?
Tra l’altro, per come è disegnato dal decreto governativo, il lavoro del fortunato garante, vincitore di una sorta di riffa di Stato, è molto burocratico. Si tratta, in generale, di acquisire atti e poi trasmetterli alla presidenza del consiglio e ai ministeri dell’Ambiente e della Salute. È un’attività di supervisione, non un lavoro operativo, che non giustifica nel modo più assoluto un compenso da 200mila euro l’anno.
E infine, nel decreto del garante non poteva mancare con il danno la solita beffa. Chi paga il conto di 600mila euro? Il Mezzogiorno, ovviamente. I fondi infatti sono recuperati da due specifiche voci: gli interventi per combattere il rischio idrogeologico nel Mezzogiorno e quelli per bonificare le discariche nelle regioni meridionali. Ricapitolando: si crea una costosa struttura burocratica, pagata profumatamente con soldi che vengono sottratti da decisivi capitoli di spesa per migliorare l’ambiente del Mezzogiorno. Questo garante dell’Ilva inizia a puzzare di spreco.