
Quando si è laureato in giurisprudenza,
a 32 anni, Pablo
Fajardo frequentava i tribunali
già da una decina
d’anni. Era in causa con
una delle aziende più grandi
del mondo. Nel 2005 si è seduto in
un’aula del tribunale di New York con un
fascicolo che conteneva la difesa dei popoli
indigeni che vivono nella regione amazzonica
di Sucumbíos, in Ecuador. Di fronte
a lui c’erano otto avvocati della compagnia
petrolifera Chevron, accusata di aver riversato
per quasi trent’anni fanghi tossici nella
regione. In tutto, Fajardo doveva affrontare
39 avvocati pagati dalla terza azienda
più grande degli Stati Uniti. “Avevano tutti
almeno venticinque anni d’esperienza”,
spiega l’avvocato. Lui ne aveva uno solo.
“Ma un vantaggio: non dovevo inventarmi
niente. Dovevo solo raccontare la realtà”.
È la storia di una catastrofe ecologica
che secondo l’accusa è trenta volte più grave
di quella causata dalla superpetroliera
Exxon Valdez, che nel marzo del 1989 si
incagliò in una scogliera nel golfo dell’Alaska
riversando in mare 40,9 milioni di litri
di petrolio. Ed è anche la storia della sentenza
– pronunciata dal giudice di Lago
Agrio, in Ecuador – che ha stabilito il risarcimento
più alto della storia per una denuncia
di reato ambientale: 8,56 miliardi di
dollari. Tra un avvenimento e l’altro ci sono
state decine di anni di sofferenze e di
morte, in una regione dove sopravvivere
alla miseria è sempre stato difficile.
José Fajardo e María Mendoza lasciarono
la provincia di Manabí, sulla costa
dell’Ecuador, in cerca di un futuro nel nordovest
del paese, dove una forte attività di
estrazione del petrolio attirava migliaia di
persone in cerca di un lavoro. Arrivarono
nella regione di Sucumbíos con i loro dieci
figli alla fine degli anni ottanta. Si stabilirono
in un paesino chiamato Shushufindi
(remo, in lingua secoya), nel bel mezzo
dell’Amazzonia. Pablo Fajardo Mendoza
era il quinto dei dieci fratelli. Aveva 14 anni.
È difficile convincere chi non è mai stato
qui che “c’era petrolio ovunque”. Nei
campi, mescolato alla terra. Nelle case,
nell’aria. E ovviamente anche sulle strade,
perché, come racconta Fajardo, i camion
della Texaco cospargevano le strade sterrate
con una specie di asfalto improvvisato
a base di petrolio per evitare che si alzasse
la polvere. Fajardo ricorda un’adolescenza
con i piedi intrisi di petrolio, i pantaloni
macchiati, i muri anneriti. Era normale
perdere le scarpe per strada. Immaginate
di uscire con le infradito dopo un temporale.
Ora immaginate che invece dell’acqua
sia piovuto petrolio. La vita a Sucumbíos è
ancora oggi così.
Secondo i dati di Fajardo, la Texaco – la
compagnia petrolifera che si è fusa con la
Chevron nel 2001 – ha perforato 356 pozzi
di petrolio nell’Amazzonia ecuadoriana.
“Come se non bastasse, per ogni pozzo costruiva
quattro o cinque vasche per i rifiuti
tossici”. In queste vasche finiva anche l’acqua
usata per estrarre il petrolio. “Costruivano
le vasche sempre il più vicino possibile
a un fiume. Volevano disfarsi dei rifiuti in
modo facile ed economico”. Così il problema,
dal terreno, è passato all’acqua, che a
causa del contatto con il petrolio si è riempita
di zolfo e altre sostanze tossiche.
Quando evaporava, ricadeva sulla foresta
sotto forma di pioggia acida. Da queste
parti la terra, l’acqua e l’aria sanno di petrolio.
Tribù scomparse
La Texaco aveva cominciato a operare
nell’Amazzonia dell’Ecuador settentrionale,
nelle zone di Sucumbíos e Orellana, in
base a una concessione del governo che
risaliva al 1964. Ha terminato le operazioni
nel 1990, lasciando l’attività in mano a Petroecuador.
Lì, prima dell’arrivo dell’industria
del petrolio e dei suoi lavoratori, vivevano
almeno cinque tribù indigene. Due di
loro, i tetete e i sansahuari, sono scomparse
per sempre. L’avvelenamento dei fiumi
ha reso impossibile la pesca. Le altre tribù
sono passate da un’economia di sussistenza
nella foresta alla miseria nell’economia
di mercato, lavorando per la compagnia
petrolifera. Anche Fajardo ha lavorato per
la Texaco. Non c’erano molte alternative.
Era un adolescente e faceva il manovale
dove serviva, per esempio ricoprendo con
la terra qualche perdita indesiderata di petrolio.
Nel frattempo ha cominciato a collaborare
con una missione di religiosi cappuccini
della Navarra, grazie a cui ha potuto
studiare e ha cominciato a capire cosa
fosse il “lavoro con le comunità”. “Bastava
andare nei campi per capire che il problema
era reale: problemi d’inquinamento,
animali avvelenati, i figli dei contadini malati,
tumori, aborti. E nessuno sapeva a chi
rivolgersi”. Fajardo ricorda che all’epoca
l’unica preoccupazione delle autorità locali
era salvaguardare la Texaco.
Mantenendo come base la missione dei
padri cappuccini, Fajardo ha cominciato a
organizzare una prima forma di resistenza,
un comitato per i diritti umani composto
da contadini e indigeni. In tutto circa cinquanta
persone sotto la sua guida. Fajardo
aveva sedici anni. L’hanno cacciato dalla
compagnia petrolifera e anche da un’azienda
di coltivazione di palme che era l’unica
alternativa di lavoro possibile. Ha finito per
vivere del suo lavoro alla missione. “I sacerdoti
mi hanno aiutato a ottenere una
borsa di studio per pagarmi gli studi
all’università”. Ha studiato diritto per corrispondenza.
“Dovevo farlo. Ogni volta che ci rivolgevamo
a un’autorità rispondevano ‘cercatevi
un avvocato che vi aiuti’”. Ha deciso
che quell’avvocato sarebbe stato lui. Un po’
alla volta il piccolo comitato è cresciuto,
con il sostegno di persone di altri villaggi
che avevano subìto dei danni. Il caso ha ottenuto
risonanza internazionale con la
pubblicazione del libro Amazon crude,
dell’avvocata statunitense Judith Kimerling.
Il libro ha attirato l’attenzione di alcuni
avvocati, che hanno presentato la prima
denuncia contro la Texaco. Era il 3 novembre
del 1993. La denuncia fu depositata in
un tribunale di New York su iniziativa di tre
avvocati statunitensi. Nel 1994 l’adolescente
che aveva organizzato le comunità
colpite dalla catastrofe doveva ancora finire
le scuole superiori.
La difesa della Texaco si è basata
dall’inizio sull’argomentazione che i tribunali
statunitensi non fossero competenti
per giudicare il caso. Se c’era stato un danno,
doveva occuparsene un tribunale ecuadoriano.
“Avevano un peso nel sistema
politico e giudiziario, ed erano convinti di
poter controllare il processo. E in effetti
avevano ragione”. Ci sono voluti nove anni
per arrivare a una sentenza. La Texaco ha
vinto la battaglia il 16 agosto del 2002. La
corte d’appello di New York ha stabilito che
il processo doveva svolgersi in Ecuador, a
condizione che all’accusa fosse concesso
un anno di tempo per riformulare il caso.
La compagnia petrolifera non aveva la minima
idea di quello che l’aspettava.
Il 7 maggio del 2003 è stata presentata
una nuova denuncia davanti al tribunale di
Sucumbíos. Pablo Fajardo collaborava con
gli avvocati statunitensi ed ecuadoriani
che si occupavano della causa. Il quinto figlio
di José Fajardo e María Mendoza si era
laureato in giurisprudenza nel 2004. L’anno
dopo è diventato l’avvocato principale
del caso. La guerra di esperti e periti ha
prodotto 106 rapporti, 58 dei quali finanziati
dalla Chevron e il resto dall’accusa.
“Tutti indicavano la presenza di idrocarburi”.
In quel momento si faceva carico delle
spese uno studio di avvocati di Filadelia,
Khon&Graf, per cui il caso Texaco-Chevron
era un investimento ad alto rischio: se
vincevano avrebbero ricevuto parte del risarcimento,
in caso contrario sarebbero
rimasti a mani vuote. Basandosi su un controverso
rapporto dei periti, le persone che
avevano subìto dei danni chiedevano un
indennizzo di 27,3 miliardi di dollari, la cifra
stimata come risarcimento per le morti
e le malattie nonché per la bonifica completa
della zona.
“Le testimonianze sono state strazianti.
Conosco persone che sono morte durante
il processo. Come una donna malata
di tumore, e come sua figlia. Erano tutte
persone che avevano vissuto i fatti in prima
persona”. I testimoni hanno raccontato davanti
al giudice di familiari caduti nei pozzi
tossici e morti avvelenati. “Una signora è
scivolata nel tentativo di salvare la sua
mucca, ha ingoiato del petrolio ed è morta
poco dopo”. Secondo l’accusa, l’incidenza
dei tumori nella regione era aumentata in
maniera insolita.
Assassinio e minacce
Nel 2004, otto giorni prima dell’inizio delle
prove periziali del processo, William Fajardo
Mendoza, fratello di Pablo, è stato
trovato morto. Aveva 28 anni. Prima di ucciderlo
l’hanno torturato selvaggiamente.
“Non posso dire che dietro all’assassinio di
mio fratello ci sia la Chevron”, ha sempre
detto Pablo Fajardo, senza mai cambiare
versione. In quello stesso periodo hanno
messo in guardia anche lui. L’ha capito
quando due uomini armati sono rimasti
una notte intera davanti al portone di casa
sua mentre lui era nascosto in quella di alcuni
vicini. Ha tre figli di quattordici, sette
e tre anni. Per motivi di sicurezza, la sua
famiglia è dispersa nei paesi vicini.
Secondo le parti lese che Fajardo rappresenta
(sono ormai trentamila persone
tra contadini e indigeni) il loro caso è paragonabile
a quello di Cernobyl, alla perdita
di petrolio della nave Exxon Valdez o alla
più recente catastrofe della Bp nel golfo del
Messico. “La differenza è che in quei casi si
è trattato di incidenti. Invece in Ecuador la
Texaco ha ideato un vero e proprio sistema
per inquinare. L’obiettivo era estrarre petrolio
spendendo il meno possibile”. Secondo
uno dei periti, nei ventisei anni in
cui la Chevron ha operato nella zona ha risparmiato
otto miliardi e mezzo di dollari
aggirando le norme più elementari di sicurezza
e di gestione dei rifiuti tossici.
In questi anni Fajardo ha sentito ogni
tipo di argomentazione da parte della Chevron.
Per esempio, hanno detto che “il petrolio
non inquinava”. O che “l’Amazzonia
era un terreno petrolifero e che non era necessario
che qualcuno vivesse lì”. In un’altra
occasione hanno detto che i tumori
erano dovuti alla “mancanza di igiene degli
indigeni”. Si sono spinti ino a dire che
“il petrolio è biodegradabile e nel giro di
poche settimane non si notano più i suoi
effetti”.
Dal 2009 hanno messo in atto un’altra
strategia. “Hanno capito di rischiare veramente”.
Hanno presentato 14 denunce
negli Stati Uniti contro la piattaforma rappresentata
da Fajardo e contro chiunque
collabori con loro, in modo da ottenere
delle informazioni. Ci sono riusciti. “Hanno
tutti i nostri indirizzi di posta elettronica”.
Il 1 febbraio del 2010 la Chevron ha presentato
un caso di tipo Rico (Racketeer inluenced
and corrupt organizations), ricorrendo
a una speciale legge federale degli
Stati Uniti contro il crimine organizzato.
La nuova tesi della Chevron è che i querelanti
fanno parte di un’associazione criminale
che vuole estorcere denaro all’azienda.
Nel frattempo, racconta Fajardo, un
dipendente della Chevron ha cercato di
corrompere il giudice e di registrare il tutto
con una videocamera nascosta, per dimostrare
la sua corruzione.
Il 14 febbraio del 2010 è stata emessa
dal tribunale di Lago Agrio la storica sentenza
che ha condannato la Chevron al pagamento
di 8,56 miliardi di dollari. Ma la
compagnia petrolifera non possiede beni
in Ecuador, quindi bisognerebbe sequestrarle
quelli all’estero. Ma un giudice che
si chiama Lewis Kaplan, del distretto sud
di New York, ha stabilito che la sentenza
sarà inapplicabile negli Stati Uniti finché
lui stesso non si pronuncerà sulla competenza
dei tribunali. “Questo giudice non
conosce il problema. Ha emesso delle sentenze
che secondo me vanno contro la legge,
con una motivazione economica e non
giuridica”, sostiene Fajardo. Per entrambe
le sentenze, quella di Lago Agrio e quella di
New York, è stato presentato appello dalle
due parti. Uno studio di avvocati di Washington,
Patton Boggs, si è fatto carico del
caso per la parte ecuadoriana.
È ancora lunga
“La Chevron ha detto che non pagherà. Ma
è un’azienda che ha investimenti in cinquanta
paesi, e la sentenza in Ecuador dice
che il risarcimento può essere ottenuto
ovunque, non necessariamente negli Stati
Uniti. Dovremo obbligarli a pagare”, dice
Fajardo. Signiica che dovranno presentare
nuove denunce dove Chevron possiede dei
beni sequestrabili, in applicazione della
sentenza in Ecuador. Il giudice Kaplan ha
fatto intendere chiaramente che per ora di
sequestrare beni negli Stati Uniti non se ne
parla. “Questo giudice agisce senza conoscere
il caso, guidato dalle menzogne della
Chevron”.
Non è finita qui. In questi anni l’accusa
ha speso per il processo una cifra tra i venti
e i trenta milioni di dollari, coperti soprattutto
da avvocati statunitensi che si sono
passati il testimone e dalle donazioni ricevute
da tutti i paesi del mondo. Fajardo dice
di aver saputo da “fonti degli azionisti”
che la Chevron ha speso 300 milioni di
dollari in avvocati solo nel 2010, e in tutto
questa causa ha già superato il miliardo di
dollari di costi.
Il figlio di due contadini analfabeti
dell’Ecuador dovrà tornare a sedersi con la
sua ventiquattr’ore davanti alle decine di
avvocati della Chevron. Continuerà a sentirsi
dire che il petrolio non inquina, che il
problema degli indigeni è che non si lavano,
che è a capo di un’organizzazione criminale.
Negli ultimi diciotto anni, la Chevron
ha usato tutte le strategie possibili, e
continuerà a farlo. Ma non è mai riuscita a
smentire il fatto che la terra, l’acqua e l’aria
di Sucumbíos siano piene di petrolio.