Euroscettici: ecco quelli che non credono nell’Europa

Gli euroscettici crescono. Ovunque. Spinti dal malumore per le politiche di austerità che aggravano gli effetti della recessione, favoriti da vecchi e nuovi nazionalismi, e orientati da quei partiti che mettono l’anti-europeismo al cento dei loro programmi, trasformandolo in una bandiera per catturare consensi e voti. Il segnale del voto in Islanda non deve sorprendere, […]

Gli euroscettici crescono. Ovunque. Spinti dal malumore per le politiche di austerità che aggravano gli effetti della recessione, favoriti da vecchi e nuovi nazionalismi, e orientati da quei partiti che mettono l’anti-europeismo al cento dei loro programmi, trasformandolo in una bandiera per catturare consensi e voti. Il segnale del voto in Islanda non deve sorprendere, se si pensa che un recentissimo sondaggio commissionato da Bruxelles, Your Voice, sul gradimento dell’Unione, mostra come gli ottimisti sul futuro dell’alleanza pravalgono sui pessimisti soltanto in 2 paesi su 15 interpellati, Belgio e Olanda. L’euroscetticismo non ha confini neanche sul piano della geogragfa politica: sfonda a destra, in Francia come in Ungheria, in Austria come in Polonia , ma ha le sue postazioni anche nella sinistra radicale, dalla Svezia alla Grecia. Se l’Islanda è un piccolo paese, in Germania sull’idea di separare Europa e moneta del Nord e del Sud, è nato un partito, Alternativa per la Germania, che vedremo alla prova già alle prossime elezioni politiche, ma intanto tra i suoi fondatori si segnala la presenza di Hans Olaf Helkel, ex capo della Confindustria tedesca. E in Gran Bretagna il partito indipendentista britannico (Ukip) conta di raddoppiare i voti ottenuti alle ultime europee, il 16,5 per cento, drenando conensi tra i laburisti e i conservatori nel nome della storica freddezza anglosassone nei confronti dell’Europa.

LA SITUAZIONE IN ITALIA. E in Italia? La mappa dell’euroscetticismo non può non partire dall’orientamento dell’opinione pubblica. L’Europa non ha mai scaldato nè cuori nè teste, è sempre stata percepita come un’entità astratta e lontana, ma la caduta di popolarità dell’Unione negli ultimi anni è diventata vertiginosa. Secondo un’indagine dell’Ispo (Italia e Ue, un rapporto che cambia) il 60 per cento degli italiani ha poca o pochissima fiducia nell’Europa: la percentuale è aumentata del 17 per cento dal 2010, di fatto in poco più di due anni. Le punte più alte, fino al rigetto dell’Unione e alla convinzione che abbia prodotto più danni che vantaggi, si registrano tra i cittadini di età superiore ai 50 anni, tra i pensionati, e tra i lavoratori dipendenti. Laddove, sembrerebbe di capire, sono considerate più a rischio le sicurezze dello Stato sociale made in Italy, anche per effetto delle politiche di bilancio che vengono imposte a Bruxelles. E la perdità della sovranità nazionale si è progressivamente trasformata in un’altra spinta propulsiva per l’euroscetticismo: secondo una ricerca del Censis il 75 per cento degli italiani è convinto che la propria voce non conta nulla all’interno del club dell’Unione. Sommando i voti del Movimento Cinque Stelle con quelli delle Lega, siamo già a un terzo dell’elettorato decisamente antieuropeo, ed è interessante notare come i tasti del pianoforte siano cambiati, ma la musica resta la stessa. La Lega ha fatto della battaglia contro l’immigrazione la sua cifra antieuropeista, e nel 2001 Umberto Bossi tuonava contro “L’Europa dei burocrati, dei negri e degli omosessuali”, mentre nel 2013 Beppe Grillo ha puntato il mirino contro l’effetto impoverimento e ha inserito nel suo programma un referendum nazionale per uscire dall’euro “prima che Bruxelles ci ammazzi tutti”.

EUROSCETTICI DI RANGO: NON SOLO BEPPE GRILLO. Sarebbe un errore, però, ridurre l’euroscetticismo a un sentimento popolare, distinto e distante dalle convinzioni della classi dirigenti. Non è così. E come in Germania una parte significativa dell’establishment chiede il ritorno al marco, fino a sponsorizzare un partito con questa mission, anche in Italia la freddezza nei confronti dell’Unione si allarga ai piani alti della società. Mescolando frustrazione per la perdita di sovranità, nostalgia per le leve della svalutazione e dell’inflazione, e rabbia per il conto pagato dall’assenza in Europa di una vera unione fiscale e politica. Gli euroscettici di rango non solo nati oggi, ma risalgono al varo della moneta unica. Ricordiamo che all’epoca mostrarono perplessità per l’ingresso nell’euro personaggi del calibro di Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, e di Cesare Romiti, capo della Fiat e punto di riferimento degli umori industriali. Oggi teorizzano il fallimento dell’euro studiosi come Emanuele Emanuele, economista e banchiere,e Paolo Savoma, professore di Politica economica, ex ministro, ma innanzitutto stretto collaboratore di Giudo Carli che dell’euro è stato uno dei padri. Dice Savona: “Dobbiamo partire dalla realtà dei fatti, e cioé dalla constatazione che finora il progetto dell’integrazione europea ha significato, specie per noi italiani, un gigantesco fallimento. A questo punto meglio uno shock con il ritorno alla lira, e con il recupero della nostra sovranità. L’inflazione salirebbe, certo, ma durerebbe poco, e ci sarebbe la possibilità di riprendere la strada dello sviluppo in tempi rapidi. In ogni caso, preferisco un’alta inflazione a una disoccupazione dilagante, e l’alternativa oggi è tra queste due prospettive”. Anche nel campo degli imprenditori l’euroscetticismo dilaga, specie tra quelle aziende che esportano e sentono il fiato sul collo della concorrenza tedesca, favorita dal differenziale dei tassi. Silvio Berlusconi, che conosce molto bene il mondo delle piccole imprese, lo ripete spesso ai suoi dirigenti di partito: “Se potessero, i nostri imprenditori tornerebbero alla lira”. Una prospettiva che, per esempio, non spaventa un industriale affermato, Ettore Riello, presidente tra l’altro della Fiera di Verona: “Prima per difenderci avevamo la svalutazone e l’inflazione, adesso siamo disarmati. Perchè dovremmo restare inmpiccati all’euro? Siamo in tanti, nell’economia reale, a farci questa domanda….”
Tirando le somme, e i fili che collegano gli umori popolari con gli orientamenti dell’establishment, viene fuori una sola conclusione: il bacino di consenso dell’euroscetticismo, ai piani alti come in quelli bassi della società, potrà signfiicativamente prosciugarsi soltanto quando l’Europa uscirà dalla sua incompiutezza. Un mercato e una moneta comune non sono bastati per creare le basi degli Stati Uniti d’Europa, come pure pensavano, con una certa dose di utopia, i padri fondatori dell’Unione. Serve molto di più sulla strada dell’integrazone, e solo la politica può darlo: in caso contrario, prima o poi, gli euroscettici vinceranno la loro rischiosissima partita per disintegrare l’Unione.

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