Il conto del non fare: 500 miliardi di euro

Acquedotti, ferrovie, autostrade, reti elettriche, porti e depuratori: è lunga la lista delle opere pubbliche necessarie per rimettere in moto il Paese e colmare il crescente deficit infrastrutturale. A partire da oggi e fino al 2027 l’Italia dovrà trasformarsi in un vero e proprio cantiere, pena un’ulteriore perdita di competitività e non solo. Sono circa 474 miliardi e 300 milioni gli euro che l’Italia si […]

Acquedotti, ferrovie, autostrade, reti elettriche, porti e depuratori: è lunga la lista delle opere pubbliche necessarie per rimettere in moto il Paese e colmare il crescente deficit infrastrutturale. A partire da oggi e fino al 2027 l’Italia dovrà trasformarsi in un vero e proprio cantiere, pena un’ulteriore perdita di competitività e non solo. Sono circa 474 miliardi e 300 milioni gli euro che l’Italia si ritroverà a pagare se non riuscirà a colmare questo vuoto strutturale.

I risultati del settimo rapporto dell’Osservatorio “I costi del non fare” presentato a Roma giovedì 22 novembre e riportati su L’Espresso parlano chiaro: quasi 500 miliardi sono esattamente il 30 per cento del Pil, cioè del totale della ricchezza prodotta in un anno dall’intero Paese.

Realisticamente, colmare questo deficit sembra un obiettivo poco raggiungibile. Secondo il “Global competitiveness report 2012-2013” del World Economic Forum, la colpa è in primo luogo dell’inefficienza del nostro apparato burocratico. Seguono la pressione fiscalela difficoltà di accesso al credito e la rigidità del mercato del lavoro.

E non è tutto. A complicare le cose sono altri due fattori: un federalismo che porta alla continua sovrapposizione nelle competenze tra i diversi enti locali e un ecologismo troppo spesso portato all’esasperazione. Sono aumentati infatti i casi in cui le comunità locali contestano la realizzazione di progetti di rilevanza nazionale. A questo si aggiunge poi una giustizia inefficiente e spesso chiamata in causa a sproposito da chi decide di opporsi a questa o a quell’opera.

Succede così che aumentano sempre più le aziende straniere che si tengono alla larga dal nostro Paese. Un rapporto elaborato dal Comitato degli investitori esteri iscritti alla Confindustria dice che tra il 2005 e il 2011 la Gran Bretagna ha attratto il 4,8 per cento del totale degli investimenti diretti all’estero (Ide) nel mondo contro l’1 per cento dell’Italia. Secondo i ricercatori della Columbia University, tra il 2007 e il 2010 gli Ide in Italia sono scesi da 40 a 9 miliardi. I cinesi, per esempio, hanno investito da noi appena il 2,72 per cento del totale delle somme dirottate in Europa. Il risultato è che in Italia lo stock di investimenti esteri diretti in entrata è pari al 16,4 per cento del prodotto interno lordo, contro il 48,4 per cento del Regno Unito.

Se questo è il desolante quadro di un Paese bloccato, con il governo di Mario Monti, a parte qualche segnale positivo, non è cambiato granché. Anche perché, secondo uno studio del “Sole24Ore”, l’83 per cento degli adempimenti previsti dalle sette leggi più importanti varate dal governo, dal cosiddetto cresciItalia alla semplificazione, sono finora rimasti lettera morta.

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