Un viaggio disperato alla ricerca di cibo

Il camion ondeggia lentamente lungo la pista polverosa arrancando verso il posto dove potrà fermarsi. I mucchi di borse rosse di paglia, i fagotti di vestiti e le taniche gialle per l’acqua legati sul retro sovrastano i volti preoccupati che spuntano dai pannelli di metallo colorati. Con una frenata rumorosa il camion si ferma all’ombra […]

Il camion ondeggia lentamente lungo

la pista polverosa arrancando verso il

posto dove potrà fermarsi. I mucchi

di borse rosse di paglia, i fagotti di vestiti

e le taniche gialle per l’acqua legati sul

retro sovrastano i volti preoccupati che

spuntano dai pannelli di metallo colorati.

Con una frenata rumorosa il camion si ferma

all’ombra di una grande acacia.

Sappiamo che a bordo ci sono delle persone

dirette a Dadaab, il campo profughi

più grande del mondo, ma quando l’autista

scende e apre il portellone posteriore ci rendiamo

conto che dentro c’è un’intera comunità.

“In questo camion ci sono circa quaranta

famiglie”, dice l’autista. Dal veicolo

escono almeno quaranta adulti e settanta

bambini, molti dei quali piccolissimi. Appaiono

terrorizzati ed esausti.

Benvenuti a Dobley, una cittadina di

quindicimila abitanti a un chilometro e

mezzo dal confine con il Kenya, l’ultima

tappa per migliaia di somali che vogliono

lasciare il paese. Nell’ultimo mese sono

passate di qui circa ventimila persone, molte

viaggiando su camion come questo.

Allestiti nel 1991 per ospitare novantamila

profughi della guerra in Somalia, i tre

campi che compongono il complesso di Dadaab

(Dagahaley, Ifo e Hagadera) oggi ne

ospitano più di 380mila. Si calcola che almeno

altre 40mila vivano fuori dal perimetro

del campo, al di fuori della giurisdizione

e del controllo delle Nazioni Unite.

“Sono disperati e affamati, vogliono andare

in Kenya e io li ho portati qui”, spiega

l’autista del camion, che preferisce rimanere

anonimo per paura dei miliziani di Al

Shabaab, un gruppo islamista che combatte

per rovesciare il governo federale di transizione

(Tfg) e cerca di impedire ai somali di

abbandonare il paese. L’autista ci racconta

che per il viaggio dal distretto di Bu’aale,

quattrocento chilometri percorsi in 23 ore

senza fermate, ha voluto dieci dollari da

ogni adulto. Negli ultimi quattro mesi ha

fatto questo percorso sei volte. “La strada è

dissestata, le persone sono estremamente

affamate, stanno male e vomitano. Così il

viaggio diventa particolarmente difficile”,

dice.

Medinah, Burwaqo e Hussain

Medinah Abdi, 21 anni, ha partorito il giorno

prima di partire. Quando scende, si stende

dietro il camion per allattare il neonato,

accarezzandogli il viso con la punta delle

dita. Tra il rumore che ci circonda, il suo silenzio

sembra racchiudere tutta la sua storia.

Burwaqo Norwo, 25 anni, madre di sei

figli, è più preoccupata: “Nei due giorni prima

della partenza non abbiamo trovato

niente da mangiare. Il viaggio è stato terribile.

Il camion era pieno di gente e di cattivi

odori. I bambini facevano la pipì, qualcuno

vomitava, e tutti eravamo affamati, con lo

stomaco completamente vuoto”. Hussain

Mohamed Ibrahim, 56 anni, in viaggio con

due mogli e nove figli, ha perso le sue qua-

Un viaggio disperato

alla ricerca di cibo

La cittadina di Dobley è la prima

tappa per i somali diretti al

campo profughi di Dadaab.

Molti arrivano qui dopo aver

viaggiato per giorni. Reportage

dal conine tra Kenya e Somalia

Azad Essa, Al Jazeera, Qatar

ranta mucche a causa della siccità, la peggiore

degli ultimi sessant’anni. È stato costretto

a fuggire e per pagare il viaggio ha

venduto il suo unico cammello. Ora è felice

di essere sceso dal camion, uno degli almeno

quindici convogli che arrivano a Dobley

ogni giorno. Nella cittadina, completata la

prima tappa del loro viaggio, le famiglie si

riposano e poi cercano un modo per raggiungere

i campi dall’altra parte del conine.

Adnan Dahir Hassen, il capo dell’amministrazione

locale, racconta di avercela

messa tutta per gestire gli arrivi. “Come potete

vedere, stanno arrivando troppe persone

dal sud della Somalia. Cerchiamo di

mantenere la situazione sotto controllo per

farle sentire al sicuro, condividendo con

loro quel poco che abbiamo”, afferma Hassen,

mentre il pianto dei bambini appena

arrivati rende l’atmosfera ancora più pesante.

Secondo Hassen è triste che tanti somali

lascino il paese, ma fermarli sarebbe disumano.

Dobley è sorvegliata da cinquemila

soldati del governo transitorio, appena tre

mesi fa però era in mano ai combattenti di

Al Shabaab che l’avevano occupata nel

2009. “Quest’esodo si sta veriicando proprio

perché il governo ha assunto il control-

lo della città”, dice hassen, senza ironia.

“Queste persone hanno bisogno di cibo e di

medicinali ma noi non ne abbiamo. Dopo

aver riacquistato le forze, viaggeranno ancora

per giorni da qui a Dadaab. e noi non

glielo impediremo”.

La città non ha nulla da offrire per convincerli

a rimanere. L’ospedale locale, un

tempo sede di un campo di al Shabaab, è

crivellato dai fori dei proiettili. Gli altri edifici

amministrativi sono scoperchiati e hanno

buchi enormi nelle pareti, a testimonianza

dei duri scontri tra le forze governative e

gli al Shabaab. Le strade polverose vicino al

mercato e al pozzo centrale portano i segni

della lotta che la città sta combattendo contro

le macerie della guerra: macchinari bruciati

giacciono dietro i cespugli, la spazzatura

è sparsa dovunque sull’erba secca. Stormi

di enormi marabù aspettano pazientemente

di afferrare qualsiasi cosa si muova

in mezzo alla sporcizia.

come nel resto della Somalia centrale e

meridionale, anche Dobley paga il prezzo

della carestia, ma il fatto di essere vicina al

conine aumenta la pressione sui suoi amministratori.

Succede lo stesso a Liboi, la

città più vicina sul versante keniano. Un anziano

di Liboi racconta che alcune famiglie,

anche se hanno a malapena da mangiare

per loro, riescono comunque a racimolare

qualcosa per i rifugiati. “hanno bisogno e

questo lo capiamo, ma non è sempre facile

trovare qualcosa”, dice.

Un buco nero

“È una siccità di proporzioni inimmaginabili,

come non succedeva da decenni”, afferma

abdi nasir Serat, il portavoce delle

truppe governative nella regione somala

del Basso Juba. La guerra civile l’ha resa ancora

più devastante. “È stata la guerra a

mettere in fuga queste persone, che vanno

in cerca di condizioni di vita più sicure”, dice

Serat.

Secondo gli operatori umanitari a Dadaab,

molti rifugiati sono partiti in seguito

alle minacce di al Shabaab. Si parla di intimidazioni

ai contadini e di rapimenti di ragazzi

costretti a unirsi ai miliziani. La maggior

parte dei nuovi arrivati a Dadaab sono

donne e bambini. I pochi uomini rimangono

a sorvegliare quello che resta del bestiame

o a combattere nella guerra civile.

nonostante il trauma del viaggio e il

complicato processo di registrazione nei

campi, che a volte può durare giorni perché

le procedure cambiano in continuazione,

chi raggiunge Dadaab è fortunato. norwo,

madre di sei bambini, e Ibrahim, padre di

nove, non hanno particolari aspettative.

“Siamo talmente affamati, disperati e poveri

che non abbiamo idea di dove andare.

Il problema principale è la fame e la nostra

speranza più immediata è il campo profughi”,

dice norwo. Per quanto caotico possa

essere il complesso di Da daab, se norwo e

Ibrahim riusciranno a portare i figli in tempo

per ricevere le cure mediche, probabilmente

li avranno salvati dalla morte per fame.

Dadaab è la scelta migliore perché a

Dobley, come in altre zone del sud della Somalia,

non ci sono infrastrutture per gestire

la carestia e l’assistenza medica è insufficiente.

Gli abitanti di Dobley devono andare

a Liboi per ricevere le cure necessarie.

Probabilmente Dadaab è riuscita ad attirare

l’attenzione della comunità internazionale

ma la Somalia continua a essere un

buco nero agli occhi del resto del mondo.

Più di due milioni di somali soffrono la fame

e i profughi interni sono circa un milione.

Il fatto che nel paese operino poche organizzazioni

umanitarie – a causa dell’insicurezza

e delle difficoltà amministrative,

ma anche del fatto che al Shabaab le ha costrette

a lasciare il paese – ha creato un circolo

vizioso. In assenza di organizzazioni

internazionali, i mezzi d’informazione si

disinteressano alla Somalia e non danno

notizie sulle condizioni nel paese. così la

comunità internazionale non si sente sollecitata

a inviare aiuti. Un somalo su tre ha

bisogno di assistenza e, secondo quanto denunciato

dalla fao a marzo, un bambino su

quattro è malnutrito. Secondo Serat, se tornassero

le organizzazioni umanitarie si potrebbe

evitare la catastrofe in alcune zone

del paese. negli ultimi vent’anni è stato

estremamente difficile lavorare in Somalia

ma il governo transitorio sta facendo pressioni

sulla comunità internazionale perché

torni a occuparsi del paese.

Di recente i miliziani di al Shabaab hanno

dichiarato di essere disposti a far entrare

le organizzazioni umanitarie nelle aree da

loro controllate, anche perché, come riferiscono

alcune persone interne al gruppo,

perino i combattenti islamisti subiscono gli

effetti della carestia, che ha influito negativamente

sulle loro possibilità di spostarsi,

di fare provviste e sull’umore della popolazione

civile. Questo potrebbe tradursi

nell’effettiva possibilità per le organizzazioni

umanitarie di stabilire una collaborazione

efficace con il governo transitorio e al

Shabaab.

Mentre stiamo in piedi sotto un albero, a

Dobley comincia a piovigginare. Dalle nuvole

gonfie sopra di noi arrivano gocce rinfrescanti

che filtrano attraverso le foglie.

Ma poi, così com’era cominciata, la pioggia

improvvisamente si ferma.

Fonte: Internazionale

 

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