Svantaggi e costi del figlio unico

Il figlio unico è un privilegiato, uno che ha potuto esprimersi al meglio fin dall’infanzia, quando ha avuto tutti i giocattoli che voleva, la stanzetta solo per sè, l’attenzione esclusiva dei genitori disposti ad investire risorse nella sua istruzione? Oppure è uno svantaggiato sotto il profilo emotivo, incapace di relazionarsi con gli altri bambini, destinato […]

Il figlio unico è un privilegiato, uno che ha potuto esprimersi al meglio fin dall’infanzia, quando ha avuto tutti i giocattoli che voleva, la stanzetta solo per sè, l’attenzione esclusiva dei genitori disposti ad investire risorse nella sua istruzione?

Oppure è uno svantaggiato sotto il profilo emotivo, incapace di relazionarsi con gli altri bambini, destinato a diventare un adulto egocentrico, vanitoso, emotivamente avaro di sé?

Il dibattito se il figlio unico abbia una marcia in più o una marcia in meno rispetto a chi cresce fra fratelli (o sorelle) va avanti da almeno un secolo (prima questa condizione era solo oggetto di invettive, Genesi e Levitico inneggiano al “Crescete e moltiplicatevi”, per San Giovanni “ogni figlio non nato griderà dai cieli contro la lussuria dei genitori”). C’è chi propende per la prima ipotesi, chi per la seconda. Un dibattito che per noi italiani diventa assai poco accademico perché ha una sua (quasi) drammatica attualità.

 

L’Italia ha il tasso di fecondità più basso d’Europa , l’1,4 contro una media europea dell’1,9 e a differenza degli altri paesi non dà segnali di ripresa. L’ultimo dato Istat ci dice che il 46,5 per cento delle famiglie italiane ha un figlio solo e “arranca” già con uno perché gli asili pubblici sono pochi, manca un sostegno economico dello Stato (a differenza di quanto avviene in Francia, in Germania e nei paesi scandinavi) e i bambini costano sempre di più. Un quarto delle donne dopo la nascita del primo figlio smette di lavorare e difficilmente rientra nel mercato del lavoro (cosa che avviene più facilmente negli altri paesi europei), soprattutto se svolge una professione non qualificata.

Ora una ricerca di una economista dell’università di Torino, Daniela Del Boca, suggerisce che il figlio unico “all’italiana”, unico perché non si riesce ad avere il secondo, soprattutto per problemi economici  si trovi anche svantaggiato sotto il profilo della formazione, visto che in un confronto fra 57 paesi i nostri quindicenni risultano al 33° posto come competenza linguistica, al 38° per abilità matematica.  Ne ho parlato in un articolo uscito sabato nella sezione “Tempi Liberi” del Corriere (cliccate qui per leggere l’articolo).

Sarà perché la mamma costretta a restare a casa senza lavoro, con le sue frustrazioni e la mancanza di stimoli, non è proprio il massimo per la crescita dei figli? Sarà perché gli asili nido pubblici, luoghi importanti per la formazione della personalità, sono pochi? Ma sarà anche perché la nostra scuola non è più quella di una volta?

Gli interrogativi da porsi sono tanti, ma senz’altro qualcosa in Italia non sta girando per il verso giusto.

Troppa rigidità sociale, ovvero scarsa flessibilità nella divisione dei compiti all’interno della coppia (dei figli si occupa ancora al 70 per cento la donna), nel funzionamento dei servizi sociali, nell’organizzazione del lavoro.

Da che parte cominciare per migliorare questo stato di cose?

Vero è che la maggior dei sondaggi ci dice che il desiderio di un secondo figlio c’è. Eccome.

E alla nostra società un po’ di natalità in più non può fare che bene.

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