Sprechi al galoppo

Stefano Livadiotti   Quarantotto metri quadrati: praticamente un mini appartamento. È lo spazio medio di cui dispongono, negli otto sterminati piani di un palazzone su via Cristoforo Colombo, nel quartiere romano dell’Eur, i 176 dipendenti dell’Unione nazionale per l’incremento delle razze equine, una sorta di ministero dell’ippica. Nel bilancio dello Stato l’Unire figura come un […]

cavallo

Stefano Livadiotti

 

Quarantotto metri quadrati: praticamente un mini appartamento. È lo spazio medio di cui dispongono, negli otto sterminati piani di un palazzone su via Cristoforo Colombo, nel quartiere romano dell’Eur, i

176 dipendenti dell’Unione nazionale per l’incremento delle razze equine, una sorta di ministero dell’ippica. Nel bilancio dello Stato l’Unire figura come un ente pubblico non economico e mai classificazione è risultata così azzeccata, se è vero che è  riuscito a scavare un buco di 83 milioni a fine 2009. Vuol dire che ogni stipendiato, dal segretario generale all’ultimo degli uscieri, ha prodotto in media un debito di oltre 471 mila euro. Ci vuole del metodo. Dodici anni fa, per capire come la gestione del patrimonio nazionale dei quadrupedi potesse costare tanto, una pattuglia di parlamentari è arrivata addirittura a proporre la nomina di una commissione d’inchiesta, proprio come per la Loggia P2 o il giallo di Ustica.

Il vertice del carrozzone, oggi affidato al magistrato del Consiglio di Stato Claudio Varrone, è una porta girevole. Il turnover dei massimi dirigenti è talmente vorticoso che al momento di farne il conto esatto anche quelli in carica sono andati in tilt: «Dal 2000 al 2010», hanno detto al Senato, «si sono succeduti 13 (14) vertici di governo». Quanti siano stati, dunque, non è dato sapere. Certo è, invece, che del mondo dei cavalli nessuno di loro sapesse un fico secco. L’ha dimostrato, proprio nel giorno dell’insediamento, l’ultimo dei presidenti, l’ex prefetto di Torino Goffredo Sottile: 

«Il gioco rovina le famiglie», ha scandito lasciando di stucco gli astanti. Già, perché la principale entrata dell’Unire viene proprio da una percentuale delle scommesse raccolte sulle corse di trotto e galoppo.

Quella dell’Unire è la classica storia all’italiana di un ex monopolista (o quasi) incapace di riciclarsi in una logica di mercato. Fino all’inizio del secolo gli appassionati nazionali di scommesse potevano scegliere solo tra il Totocalcio, il Lotto e appunto i cavalli, forti di una fetta di 3,6 miliardi di giocate su un totale di 15. Poi il settore s’è aperto alla concorrenza e oggi, dalle slot machine al Superenalotto, ce n’è per tutti i gusti. Il risultato è che le puntate sui quadrupedi sono scese a 1,7 miliardi, su un torta complessiva che supera ormai i 60. Così, il pubblico delle corse è crollato dai 5 milioni l’anno del 2002 al milione scarso di oggi e le entrate dell’Unire (il 13 per cento delle cifre in gioco) si sono dimezzate.

La festa, insomma, è finita. Ma nel palazzone dell’Eur hanno fatto finta di niente. I presidenti e i commissari insediati dai titolari di turno del ministero dell’Agricoltura, che dovrebbe essere l’ente controllante, hanno interpretato alla lettera uno statuto che sembra scritto da Totò e Peppino: «L’Unire», scolpisce l’articolo uno, «favorisce l’utilizzazione del cavallo come strumento di riabilitazione fisica e psichica dell’uomo». E vai a sapere cosa vuol dire. Ancora: «L’ente», si legge nel sito ufficiale, «concede benefici economici di qualunque genere a soggetti pubblici e privati operanti nei campi di interesse della propria attività istituzionale». Fa, insomma, ciò che gli pare. Con una simile mission tutto è possibile. Anche cercar di mantenere in vita un circuito- monstre arrivato a totalizzare 24 mila gare l’anno in 44 ippodromi semideserti, che non chiudono i battenti solo grazie a un finanziamento da circa 100 milioni l’anno. Cifra cui vanno sommati i 200 milioni messi a disposizione per i monte-premi delle corse e quelli spesi per un costosissimo circuito televisivo, finito qualche anno fa nel mirino della Corte dei conti per l’ingaggio a peso d’oro di Bruno Vespa.

«C’è una lobby trasversale che difende l’Unire», ha denunciato lo scorso giugno Alberto Giorgetti. Il sottosegretario del Pdl all’Economia è parso cadere dalle nubi. Ma è stato l’unico. I titolari degli ippodromi e gli allevatori sono i principali beneficiari della manna. Ma godono di buona compagnia. Dal pozzo senza fondo dell’ente attingono in tanti. A partire dai dipendenti, che totalizzano 4.528 giorni di assenza ma, in base al contratto integrativo del 2008, si spartiscono 276 mila euro di indennità di ente, 140 mila di straordinari, 25 mila per i turni, 350 mila di salario di professionalità e un milione e 138 mila euro di compensi incentivanti. Per essere tagliati fuori dalla distribuzione dei benefit ci vuole un certo impegno. In base all’articolo 3, l’esclusione totale dal compenso per la produttività collettiva scatta solo se il dipendente ha subito cinque contestazioni nel corso dello stesso anno: un mezzo teppista. In compenso, con i ticket per lo spuntino di mezzogiorno (14 euro) i travet dell’Unire si mettono in tasca i tre quarti di un assegno minimo di vecchiaia.

Ma con l’Unire fa ottimi affari anche la pattuglia di iscritti all’albo dal quale vengono prescelti gli addetti al controllo delle corse. Fino a qualche anno fa era una pacchia assoluta: chi risiedeva in Sicilia veniva spedito in un ippodromo del Trentino e viceversa, con un ovvio carnevale di indennità di trasferta e note spese. Ora è arrivata una stretta. Si fa per dire: secondo quanto indicato in una circolare interna, il presidente di una giuria prende un assegno di 330 euro, che sale di 40 nei festivi e nelle notturne e di altri 110 se il lavoro si protrae per quattro ore oltre la giornata considerata. Il totale fa una bella somma, se si pensa che una gara di trotto può vedere schierati fino a 13 addetti. E il saldo cresce ancora se alcuni decidono di raggiungere l’ippodromo con il loro mezzo di trasporto. L’indennità chilometrica è infatti pari a un quinto del costo di un litro di benzina verde. Un po’ come se viaggiassero tutti in Jaguar. E dev’essere perché erano troppo impegnati a far di conto se due anni fa a Pontecagnano i giudici non si sono accorti che in gara c’erano due cavalli con il numero 12.

Che la situazione dell’Unire sia fuori controllo la Corte dei conti si affanna a dirlo almeno dal 2004, quando l’ha definito come una specie di circo Barnum: «L’ente risulta privo di un sistema di programmazione e pianificazione delle attività, nonché di controllo interno». Niente. Nel 2005 ha provato a tornare alla carica: «L’Unire è stato sottoposto a una verifica amministrativo-contabile dalla quale sono emerse irregolarità di bilancio e contabili». Ancora silenzio assoluto. Così che nel 2010 il tono dei magistrati contabili era quasi rassegnato: «La Corte non può non censurare la scarsa efficacia della gestione commissariale». A quel punto s’è svegliato anche il ministro Giancarlo Galan: «Se guardo i numeri dell’ippica provo una profonda angoscia», ha piagnucolato il titolare dell’Agricoltura. Che davanti alle cifre dell’Unire ha perso il filo, parlando di 18 mila corse con 157 mila spettatori. E avventurandosi sul terreno per lui impervio dell’aritmetica: «In media possiamo dunque calcolare che gli spettatori sono stati 56». Vai a capire.

Mentre Galan ripassava le tabelline, il governo ha aperto il

portafogli: negli ultimi due anni l’Unire è stato salvato da un finanziamento straordinario di 300 milioni. Ora il governo ha promesso che ci metterà una pezza anche per il 2011. Chissà se i soldi arriveranno in tempo per festeggiare “comme il faut” quello che il sito dell’ente definisce uno dei principali eventi nazionali: 

“Nitriti di Primavera”. Con la “p” maiuscola.

 

 

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