Riflettere sulla morte per amare la vita

   di Bruno Forte Non è facile la riflessione che sto per proporre. Non lo è anzitutto perché davanti al mistero della morte, di qualunque morte, ciò che più si addice è il silenzio. E non lo è perché qualunque parola si dica di fronte a questa morte comunque inquietante – il "suicidio assistito" di […]

 

Non è facile la riflessione che sto per proporre. Non lo è anzitutto perché davanti al mistero della morte, di qualunque morte, ciò che più si addice è il silenzio. E non lo è perché qualunque parola si dica di fronte a questa morte comunque inquietante – il "suicidio assistito" di Lucio Magri, un uomo pubblico, che ha vissuto con passione la storia dell’Italia repubblicana -, si rischia di essere pregiudizialmente giudicati, quasi che la lettura di quel gesto comporti inevitabilmente una presa di posizione ideologica, una sorta di sentenza scontata a seconda di chi intervenga.
Ecco perché ritengo giusto affermare che quanto cercherò di esprimere è parola "seconda", che segue al silenzio prolungato della riflessione e della preghiera, cui il mio cuore di credente si è immediatamente aperto di fronte alla notizia, e volutamente rifugge da ogni giudizio sul sacrario della coscienza, in cui solo ciascuno può tentare di entrare per sé, e dove, per chi ha fede, entra unicamente il giudizio dell’amore giusto e misericordioso di Dio.
Lucio Magri, dunque, giovane democristiano negli anni 50, passato poi attraverso le diverse avventure della sinistra italiana, fondatore con altri de Il Manifesto e protagonista di non poche battaglie politiche su posizioni di critica spesso radicale nei confronti dei "vincenti" di turno, ha comprato un biglietto di sola andata per la Svizzera, dove, in un centro a ciò predisposto, in base alle leggi di quel Paese, si è fatto accompagnare fino all’atto estremo del suicidio, per cui tutto era stato accuratamente predisposto. Gli amici, che nulla avevano potuto di fronte alla depressione che aveva invaso quel cuore, specialmente dopo la morte della persona amata, sono stati puntualmente informati una volta compiutosi l’atto estremo, senza ritorno.
Una scelta disperata? Una rinuncia finale a ogni possibile conforto, a ogni sia pur lieve barlume di speranza? O – come qualcuno ha dichiarato – una scelta da rispettare e basta, senza tener conto della possibile ricaduta che inevitabilmente una simile azione, specialmente in quanto compiuta da un uomo pubblico, ha potuto o potrà avere su altri? A rispondere a questi interrogativi può forse aiutare la vicenda stessa di Magri. Siamo nell’Italia della metà degli anni Cinquanta e il dibattito interno al partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, si va facendo incandescente.

Fra i giovani militanti di quella forza politica si forma una consistente minoranza di sinistra, che riconosce i suoi leaders proprio in Lucio Magri e altri. Furono questi a dar voce alla loro insoddisfazione di fronte a quello che ritenevano l’immobilismo sociale e politico dei capi, dando vita al mensile "Il ribelle e il conformista". Il nome del periodico intendeva ricordare da una parte il foglio "Il ribelle" del partigiano cattolico bresciano, ucciso dai tedeschi, Teresio Olivelli, e dall’altra il romanzo da poco pubblicato di Alberto Moravia

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