Riciclare 2 / Opere d’arte con gli scarti delle fototessere

Questa è la storia straordinaria di fotografie che in teoria non avremmo potuto nemmeno guardare. Destinate alla spazzatura e prive di pretese artistiche, sono diventate famose grazie al loro carattere “vernacolare”. Simili istantanee denotano un interesse documentaristico, storico o sociologico e rivelano tecniche intime o collettive che spesso sfuggono ai canoni dell’arte. Al di là […]

Questa è la storia straordinaria

di fotografie che in teoria

non avremmo potuto

nemmeno guardare. Destinate

alla spazzatura e prive

di pretese artistiche, sono

diventate famose grazie al loro carattere

“vernacolare”. Simili istantanee denotano

un interesse documentaristico, storico o

sociologico e rivelano tecniche intime o

collettive che spesso sfuggono ai canoni

dell’arte. Al di là delle implicazioni sociali

dell’immagine, stiamo parlando delle fototessere

e degli scatti realizzati negli studi

fotografici, i quali spesso mettono in luce

l’autorità, nonché i confini, di determinati

ceti sociali. La passione per istantanee di

questo tipo ha reso famosi diversi fotografi,

come Martín Chambi in Perù, Mike Disfarmer

negli Stati Uniti, Virxilio Viéitez in Spagna,

Norbert Ghisoland in Belgio (Internazionale

892) e Malick Sidibé in Mali.

Ora, però, siamo di fronte a un caso del

tutto particolare. Martina Bacigalupo, giovane

fotografa italiana che vive in Africa

orientale, ha scovato a Gulu, in Uganda, il

Gulu real art studio, dove generalmente si

realizzano fotografie a colori che i clienti

utilizzano per documenti o album di famiglia.

Dal nord del paese, Bacigalupo, vincitrice

del Prix Canon de la femme photojournaliste

2010 al festival Visa pour

l’image di Perpignan, si è messa in viaggio

verso Gulu e si è rivolta a questo studio per

sviluppare delle foto per la famiglia di Filda,

una donna protagonista di una serie di

suoi scatti. Bacigalupo si è resa conto che

nel caso di ritratti destinati ai documenti

ufficiali di solito il fotografo ritraeva i soggetti

per intero, in piedi o seduti di fronte

all’obiettivo. Solo in seguito le foto venivano

ritagliate intorno ai volti dei protagonisti,

in rettangoli di 35 per 45 millimetri. Il

resto veniva buttato.

La fotografa è andata a rovistare nella

spazzatura, a caccia di queste immagini incise:

corpi decapitati, stampe sventrate che

l’hanno sedotta sia per i particolari inediti

dei soggetti, sia per il modo in cui queste

immagini banali diventano improvvisamente

misteriose. Senza curarsi delle simpatiche

proteste del fotografo, che le rimproverava

di interessarsi solo agli scarti del

suo lavoro, Bacigalupo gli ha chiesto il favore

di conservarle le stampe che lui reputava

inutili. Al suo ritorno, ha trovato uno scatolone

colmo di centinaia di immagini, tra le

quali ha selezionato quelle che le sono sembrate

più interessanti: foto in cui un dettaglio

si manifesta proprio grazie alla perdita

del viso. Anche se non è l’autrice degli scatti,

Martina le ha di fatto “inventate”, come

fa chi scopre un tesoro.

Il Gulu real art studio

Il laboratorio fotografico Gulu real art studio

è stato aperto negli anni sessanta dal

signor Obal, all’epoca fotografo, stampatore

e falegname. Inizialmente, lavorava in

una piccola veranda e sviluppava le foto in

una camera dell’albergo Acholi Lodge di

Gulu. Oggi, una decina dei trenta igli avuti

da tre mogli lavora, durante le vacanze,

presso il suo studio. Solo Denis Obal ha un

impiego a tempo pieno al Gulu real art, dove

ha cominciato a lavorare a 18 anni. I

clienti dello studio sono in maggior parte

contadini, autisti di boda-boda (taxi su due

ruote), studenti o militari. Tutti hanno bisogno

di foto per documenti bancari, titoli

fondiari, war death claims – utili a chi, in

guerra, ha perso i suoi beni (capre, mucche

o riserve alimentari) rubati dai soldati o dai

ribelli – e, più raramente, per i passaporti.

Le fotografie possono essere individuali o

di gruppo. Talvolta, vengono scattate istantanee

di un gruppo di più persone per ricavarne

diverse fototessere, così i clienti possono

dividere le spese. Ma scatti del genere

si rendono utili anche in un unico taglio, se

più persone si associano per aprire un conto

in banca o richiedere un finanziamento a

organizzazioni di microcredito.

Ci sono poi clienti che arrivano già con i

negativi o con le immagini scattate dai “fotografi

mobili”, che generalmente lavorano

a domicilio nei villaggi. In questo caso,

Obal si limita a tagliarle: “Il signore con la

tromba ha preso una foto dall’album di fa-

miglia e mi ha chiesto di tagliarla. Non so

perché. Mi ha detto che era urgente. In realtà,

credo che non avesse soldi per una nuova.

Ci sono anche clienti che vengono con

una fotografia venuta male, nella speranza

di poterne migliorare la qualità”, aggiunge.

Nonostante il suo studio disponga di un

classico fondale bianco e di uno blu, Obal

ha una spiccata preferenza per quello rosso,

che “mette in risalto la pelle scura e vivacizza

i colori della foto”.

È su questo sfondo che si distinguono le

mani di una madre, solo adesso visibili, che

reggono un bambino senza testa. In condizioni

normali, avremmo invece issato lo

sguardo sul volto. Stesso discorso per i

bambini che si stringono intorno ai loro genitori,

mentre questi ultimi sono in posa.

Bambini che dunque, dopo che il volto di

mamma e papà è stato rimosso per essere

incollato su un documento, diventano inaspettatamente

protagonisti dell’istantanea.

Di solito, il semplice fatto di eliminare il ritratto-

oggetto della foto, e dunque il soggetto

del fotografo, ci spinge – come è successo

a Martina Bacigalupo – a cogliere

aspetti secondari poi divenuti essenziali.

Come una conferma “in negativo” del

“punctum” di Roland Barthes, inizialmente

l’aspetto fondamentale di una foto è un

vuoto attraente. Poi però distogliamo lo

sguardo da questo vortice e capiamo ciò

che il fotografo ha eliminato in quanto non

rispondente alle richieste del cliente. Si potrebbe

dunque ancora citare Barthes, quan-

Portfolio

do scriveva che “la fotografia è ciò da cui

sono escluso”.

Nel suo lavoro di riciclo, Martina Bacigalupo

prosegue una pratica artistica apparsa

negli anni settanta che consiste nel

riplasmare fotografie esistenti. Se miliardi

di immagini sono oggi disponibili su internet,

e dunque ci si chiede se serva realizzarne

di nuove, il significato che Martina Bacigalupo

dà a questi scarti incarna un vero e

proprio lavoro artistico, e cioè quello della

selezione che svela una funzione, che a sua

volta trasforma un editor in autore.

L’esempio più evidente – e più divertente

– di questa serie di foto riguarda la serie

delle giacche. Lo studio, infatti, dispone di

una “giacca elegante per coloro che non sono

vestiti adeguatamente”. In foto bisogna

essere “in ordine”: per “Barclays ci vuole la

giacca blu”, per esempio. Così questo accessorio,

che veste sempre troppo largo,

permette di salvare le apparenze. Ma poi in

foto sembra un abito dismesso, patetico e al

tempo stesso comico, che la dice lunga sul

rito della convenzione sociale del ritratto.

Tutto questo grazie a un piccolo buco di 35

per 45 millimetri in un’istantanea scattata

in un normale studio fotografico.

Fonte: Internazionale

 

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