NON sono piu’ giovani. E neppure adulti. I protagonisti della “generazione perduta” anche se passano attraverso la tempesta di diverse esperienze, spesso caratterizzate dal disagio, non riescono con il tempo a trasformare se stessi in qualcosa che li porti oltre le possibilita’ inespresse e li faccia uscire dall’ombra di un’identita’ indefinita. Per colpa del lavoro che non c’e’, di una societa’ sempre piu’ “instabile” che gli sottrae opportunita’, ma anche per caratteristiche proprie. E per la responsabilita’ di chi non gli offre gli strumenti di supporto che sembrano sempre piu’ necessari. E’ questo uno dei risultati emersi dall’indagine realizzata dal dipartimento di scienze relazionali “G. Iacono” dell’universita’ di Napoli “Federico II”. A confessarlo, in qualche modo, sono stati proprio loro. Si’, perche’ per scavare nelle profondita’ del disagio di un arcipelago di generazioni, la professoressa Laura Aleni Sestito, docente di psicologia dello sviluppo e coordinatrice della ricerca condotta insieme a Luigia Sica e Maria Nasti, ha analizzato le testimonianze raccolte dalla nostra testata a novembre del 2009.
I compiti mancati dello sviluppo. Dall’analisi che qui anticipiamo emerge che solo meta’ dei giovani, coinvolti nella ricerca, mostra di possedere quelle caratteristiche di personalita’ utili a fronteggiare i compiti di sviluppo. I giovani, seppure chiamati a operare in un contesto molto complesso, o forse proprio per questo, solo in piccola parte mostrano di “muoversi a partire da spinte profonde, di avere capacita’ di controllo sulla realta’ interna ed esterna e di percepire se stessi come protagonisti rispetto all’esperienze di adattamento alla realta’ lavorativa”.
Tra realta’ e aspirazioni. Le ricercatrici dell’universita’ di Napoli hanno cercato di fornire una chiave di lettura complementare a quelle in ambito sociologico, antropologico e socio-economico. Al centro, la convinzione che l’identita’ sia un processo dinamico, una continua negoziazione tra realta’ e aspirazioni. Contingenze e progettualita’. A prevalere pero’, nella generazione “senza lavoro”, e’ una frapposizione di entita’ non integrate. “L’identita’ personale e l’identita’ professionale, spiega Sestito, sembrano non potersi integrare l’una con l’altra anche in soggetti di un’eta’ in cui questo deve accadere. Si persegue una senza riuscire a perseguire l’altra. Indipendentemente dal tipo di attivita’”. Paradossalmente e’ valido anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato. Nel loro caso, per una buona parte, il processo di definizione dell’identita’, e’ compiuto sulla base di fattori esterni, di timori e preoccupazioni, piu’ che speranze e aspirazioni personali.
Quelli che ce la fanno. “Risultano essere maggiormente risolti – racconta Sestito, da anni attenta studiosa della transizione all’eta’ adulta – quelli che sono riusciti ad andare fuori dalla propria citta’. Anche se poi, denunciano pure loro disagio e stress. Ma con differenze cruciali: ripercorrendo la propria storia hanno mostrato maggiore progettualita’ a lungo termine e, al momento delle scelte, hanno avuto fiducia nella possibilita’ di influire sugli eventi. Sono stati capaci di tracciare una traiettoria e di percorrerla nonostante le difficolta’” .
La ricerca del senso. La specificita’ di un’indagine di questo tipo sta proprio nella decisione di analizzare le storie. “Attraverso le narrazioni – spiega la coordinatrice – attingiamo a quello che e’ un vissuto non cristallizzato, cosi’ come emerge mentre il soggetto lo sta ricostruendo per l’interlocutore”. Il racconto svela qualcosa che altrimenti sarebbe inaccessibile anche all’autore, perche’ si costruisce nel momento in cui viene creato, stimolato dall’esigenza del doverlo raccontare. Ed e’ anche un modo di agganciarsi a una collettivita’ e a un contesto.
La complessita’ e le responsabilita’. La sensazione e’ che oggi, alle prese con una societa’ piu’ “instabile”, ci sia bisogno di un “capitale di identita’” maggiore di quanto ne fosse necessario in passato. “Oggi e’ piu’ difficile diventare adulti. Il fatto di avere piu’ chance – dice Sestito – rende tutto ancora piu’ complicato. Dopo avere individuato una scelta, ci si deve assumere le responsabilita’, in senso psicologico, dell’identificarsi con le cose che si sono scelte e di assumersele come personale traiettoria di sviluppo. Quanto piu’ la societa’ diventa complessa, tanto piu’ e’ difficile assolvere a questi compiti”.
Le scelte senza indagare se stessi. Molti nodi finiscono per venire al pettine al momento delle scelte da compiere dopo avere terminato le superiori. “Molto spesso all’universita’ – osserva Luigia Sica – arrivano ragazzi che non hanno una percezione realistica delle aree in cui possono essere bravi. Al momento delle scelte su cosa fare, sembra quasi che si pongano il quesito ‘ora quale facolta’ faccio?’ invece di ‘cosa voglio fare e cosa sono adatto a fare?’ e questo crea delle aspettative che quasi sempre vengono disilluse. Si sceglie quello che e’ piu’ attraente e non il piu’ adatto”. Ma forse c’e’ anche qualcosa di piu’ profondo. “L’indagine sui se’ possibili, l’esplorazione delle possibilita’ future, si e’ un po’ affievolita. Forse il futuro a cui si pensa e’ piu’ breve. Si sceglie cosa fare l’anno prossimo e non si va oltre”.
Le soluzioni possibili. Quali sono allora, in questo ambito, le strade da percorrere per non lasciare che molti giovani siano costretti ad arenarsi in un limbo identitario? Le autrici dell’indagine indicano alcuni strumenti. “I giovani dovrebbero essere aiutati prima a capire le proprie capacita’ e limiti. E’ necessario – suggerisce la Sestito – puntare su un orientamento formativo di accompagnamento negli ultimi due anni della scuola superiore e nei primi due anni dell’universita’. Ma non l’orientamento di tipo informativo che si fa spesso e rischia di essere disorientante. Pensiamo piuttosto a un training complesso che preveda il riconoscimento di quelle che sono le proprie risorse e i propri vincoli e favorire nei giovani lo sviluppo della capacita’ di porsi obiettivi realistici appena al di sopra delle proprie possibilita’”.