La Grande Muraglia non basta più. Oggi solo una foresta può salvare la capitale della Cina. Non un bosco qualsiasi: contro il deserto serve la selva più vasta dell’Asia. È una missione senza precedenti, ai limiti delle possibilità della natura e dell’uomo. In qualsiasi altro Paese del mondo si sarebbe trasferita la capitale.
Come è avvenuto in Kazakhstan. Miliardi risparmiati e un’incertezza in meno. Ma la Cina è un altro mondo, oggi ha bisogno di storiche sfide e poi Pechino è Pechino. È una millenaria ed eterna città, il simbolo della patria, animata da 23 milioni di persone. Per questo nessun cinese si è stupito, ieri, leggendo sul "Quotidiano del Popolo" che il governo ha varato un’impresa destinata ad entrare nella storia del mondo: piantare trecento milioni di alberi nella regione dell’Hebei, a nord e a ovest della capitale, lungo il confine con la Mongolia Interna, per arrestare l’avanzata della sabbia dal deserto del Gobi.
La titanica impresa è stata battezzata "Grande Muraglia Verde" e mira a far crescere una nuova foresta di 250 mila chilometri quadrati di superficie. Le dune, alte fino a duecento metri, avanzano di venti metri all’anno: una velocità tripla rispetto alla media del secolo precedente. Dal 1990, sabbia, siccità e cemento hanno distrutto 135 mila chilometri quadrati di macchia. La bomba-albero non punta dunque solo a proteggere la Città Proibita dalle tempeste dei deserti: verrà fatta esplodere
anche contro il cambiamento del clima e l’avvelenamento dell’aria. Che Pechino scelga la natura per tentare di ricostruire un equilibrio infranto, nel nome della crescita economica ad ogni costo, è una buona notizia per tutti. Resta da dimostrare che il bosco di Stato resista. Gli scienziati sono prudenti. I tremila membri del parlamento manifestano invece ottimismo. Al punto da approvare con un applauso non obbligatorio l’annuncio del premier Wen Jiabao: 7 miliardi di euro per riforestare il fronte nord della nazione. Betulle e pioppi, assieme a faggi e abeti, sono solo l’inizio dell’ultima battaglia di Pechino. Per garantire l’irrigazione iniziale delle piante, nei prossimi anni saranno deviati anche ventiquattro fiumi, a partire dal Fiume Giallo.
I fatti del resto non lasciavano alternative. Anche in Cina il clima, nell’ultimo decennio, si è discostato dalla ciclicità dei secoli passati. Le contee interne e del Nord, tra gli altipiani tibetani e la Manciuria, sono flagellate da catastrofici periodi di siccità. Le precipitazioni annue, dal 2001, sono diminuite del 37%. Nella zona di Pechino i giorni di vento sono saliti da una media di 136 a 178 all’anno. La capitale, nel 2010, è stata raggiunta da 56 tempeste di sabbia. Costi e danni economici sono incalcolabili. Uno studio dell’Accademia delle scienze ha rivelato che 5 milioni di abitanti della municipalità sono a rischio diretto entro i prossimi cinque anni. Sabbia, polveri sottili ed emissioni del carbone usato per industrie e riscaldamenti formano un cocktail mortale. La fascia agricola che circonda Pechino negli ultimi cinque anni si è ridotta del 12% e nella nazione vivono 400 milioni di eco-profughi. Sono i contadini costretti ad abbandonare la terra resa sterile dalla sabbia e dai veleni, pericolosamente ammassati oggi nelle metropoli.
"Mezzo secolo di follia – dice Zheng Guoguang, capo dell’ufficio meteorologico di Stato – ha prodotto mutamenti irreversibili. Deforestazione e desertificazione delle aree coltivate sono l’effetto immediatamente più pericoloso. Dove smettono di crescere alberi, cessa di scorrere l’acqua. Pechino è minacciata dal deserto: ma prima rischia di morire di sete". La popolazione della capitale è mobilitata. Il sindaco ha invitato ogni abitante ad acquistare e piantare un albero seguendo il tracciato della Grande Muraglia, che scorre pochi chilometri oltre la periferia. Ognuno potrà far crescere la pianta preferita, alberi da frutto compresi: questo primo tratto di nuova foresta si chiamerà "Bosco del millennio". Le autorità comuniste sperano che l’umidità generata dalla selva, respingendo la sabbia verso i deserti mongoli e russi, induca anche la formazione di nuvole e lo scarico di piogge. Il 90% delle antiche sorgenti imperiali è prossimo all’estinzione, i laghi Ming sono ridotti a spiagge di quarzo e i pechinesi temono di doversi concentrare presto sulla costa ad est di Tianjin. A meno che una foresta artificiale, nella culla della deforestazione asiatica, torni a salvare la nuova capitale del pianeta.