Il ministro dell’Economia Rainer Brüderle ha recepito le preoccupazioni del mondo imprenditoriale tedesco (leggi l’articolo) e, presentando il piano di strategia industriale del governo il 4 novembre, ha denunciato il rischio di un’esagerata politica ambientale che può danneggiare le imprese e condannare il Paese a una deindustrializzazione strisciante.
Luci e ombre dello sviluppo
Il quadro offerto dal ministro, racchiuso in 35 cartelle fitte di dati e considerazioni, è pieno di luci e ombre. Le prime riguardano i mesi passati, quando la Germania è uscita dalla crisi economica grazie alla forza delle proprie industrie, specie quelle dei settori tradizionali, considerate reperti di un’era ormai sorpassata.
Fabbriche di automobili, macchinari, metalli pregiati, acciaierie e industrie chimiche hanno continuato a lavorare e produrre, trascinando letteralmente l’economia fuori dal tunnel e alimentando una ripresa superiore a quella di tutti gli altri Paesi occidentali. La Germania, così, si è riscoperta un Paese industriale, fiero delle proprie ciminiere e dei propri operai, figure considerate icone di una fase evidentemente archiviata con troppa fretta.
Le ombre, invece, si riferiscono al futuro. Cinque fattori negativi rischiano di intralciare una ripresa che marcia a ritmi serrati: l’alto costo del lavoro, l’eccessiva dipendenza dalle importazioni di materie prime, la mancanza di manodopera qualificata, gli alti costi dell’energia e il sempre più diffuso scetticismo dei cittadini verso le nuove tecnologie. Dietro quest’ultimo concetto, si nasconde la paura per potenziali emissioni prodotte da siti industriali nelle vicinanze dei centri abitati. Fuori dalla metafora politichese una volta tanto applicata all’economia: l’opposizione delle popolazioni a nuove fabbriche e centrali, nonostante lo sviluppo tecnologico le renda sempre più sicure e sempre meno inquinanti.
L’affondo contro Bruxelles
È un allarme che scatenerà critiche in un Paese molto attento alla qualità ambientale del proprio sviluppo e che, nel settore delle energie rinnovabili, viaggia con una marcia in più rispetto al resto d’Europa. Ma Brüderle non ha usato perifrasi: «Il carico unilaterale sull’industria per il raggiungimento di standard ecologici più alti che in altri Paesi è un peso che non sarà a lungo sopportabile. Quando la politica cerca di proclamare un’economia verde sulla base di presunte prevedibili tendenze, corre il rischio di aprire la via a cattive soluzioni per problemi irrilevanti». Esattamente come per altri legittimi obiettivi sociali, anche quelli ambientali devono essere valutati ponderando sobriamente spese e ricavi, sostiene il ministro.
Bisogna rendere pubblici i punti di conflitto e confrontare realisticamente opportunità e rischi, giacché si tratta di presupposti per decisioni di comune interesse economico. «A una politica industriale sostenibile», ha concluso Brüderle, «appartiene da un lato la definizione di minimi requisiti ecologici, dall’altro una valutazione complessiva di diversi fattori, in modo da ottenere prodotti che siano tecnicamente fattibili, ecologicamente sensati ed economicamente giustificabili». E ce n’è anche per l’Europa: «Bruxelles non può chiedere di ridurre le emissioni di CO2 dal 20 al 30% senza offrire in cambio una contropartita».
Serve manodopera qualificata
Il piano industriale del governo affronta anche il problema dell’approvvigionamento delle materie prime, promettendo un maggiore impegno diplomatico all’estero, ma puntando anche su fattori che potrebbero placare gli ecologisti, come il miglioramento dei sistemi di riciclaggio e dell’efficienza energetica. Progressi sono attesi, per esempio, nel settore dell’auto da nuovi veicoli elettrici che dovrebbero rendere superflui diesel e benzina e consentire un considerevole risparmio energetico.
Maggiori investimenti nel sistema educativo sono invece auspicati per far fronte in tempi medio-lunghi alla carenza di manodopera qualificata, soprattutto nelle materie scientifiche. In linea con il sistema istituzionale federale, toccherà ai Länder attivare politiche che sviluppino nelle università corsi per sfornare matematici, scienziati e tecnici, possibilmente con un’età media inferiore rispetto a quella dei laureati attuali. Per le esigenze attuali, sarà necessario rimodellare le politiche di immigrazione, in modo da attirare personale qualificato dall’estero. Ai tedeschi piace il modello canadese, anche se il recente dibattito sull’integrazione ha reso questo capitolo piuttosto spinoso.
Industria, motore della ripresa Ue
Difficile, invece, che sulla questione del costo del lavoro il sindacato possa offrire una sponda (leggi l’intervista a Lense, leader dell’Ig Metall). Anzi, in seguito alle buone notizie sull’economia, le organizzazioni di categoria sono decise ad aprire una serie di confronti con gli industriali per un aumento dei salari. Dalla loro parte, la moderazione dimostrata nei mesi della crisi e il fatto che il livello salariale tedesco (che peraltro non è tra i più alti d’Europa) non è stato un deterrente per investimenti e crescita.
Il piano industriale tedesco è giunto in porto una settimana dopo che il commissario all’Industria europeo, Antonio Tajani, aveva presentato proprio a Berlino le linee direttive dell’Unione. Anche in quelle pagine, alle quali grande contributo hanno dato i funzionari tedeschi, si ribadisce il ruolo dell’industria come motore propulsivo della ripresa continentale.
Le proposte del ministro Brüderle apriranno certamente un aspro dibattito e sarà necessario trovare un punto di intesa fra le diverse sensibilità politiche, anche all’interno della stessa maggioranza. Per un’economia legata a doppio filo al settore delle esportazioni come quella tedesca, è tuttavia decisivo mantenere alto e qualificato il livello produttivo così come la capacità competitiva della propria industria.
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