Quando un’inchiesta giudiziaria, come quella in corso a Napoli già da un paio di anni, scopre i fili che collegano in modo organico il bacino dei falsi invalidi alla longa manus della malavita organizzata, viene naturale tirare una linea: il problema è di ordine pubblico, ovvero di lotta alla criminalità. Purtroppo non è così. La presenza invasiva della camorra, quasi ovvia e naturale laddove ci sono soldi pubblici da succhiare utilizzando tutte le possibili forme di illegalità e tutte le fitte complicità del caso, rappresenta solo un tassello di un quadro molto più ampio, di un male peggiore della patologia criminale, di una bonifica che non potrà mai essere efficace soltanto attraverso l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. I falsi invalidi, come le pensioni pagate ai defunti, come le false assunzioni per intascare ingiusti sussidi di disoccupazione, come le prestazioni sanitarie rimborsate e mai avvenute, si sommano nel paradigma di una società ormai cresciuta con il virus del welfare piegato all’uso improprio e continuativo delle risorse dello Stato. Un vero, granitico blocco sociale si è andato costruendo nel tempo con il cemento di alleanze che hanno messo insieme favori e clientele, voti e sprechi, ricatti e collusioni, privilegi e protezioni.
Sul fuoco di questo vulcano ha soffiato innanzitutto una classe dirigente sempre meno responsabile e sempre più cinica nella sua esclusiva ricerca di tornaconti personali e di vantaggi per specifiche cricche. La storia, e non dobbiamo mai dimenticarla quando si tratta di ricostruire fenomeni di questa portata, ci insegna che per un lungo periodo il falso invalido, specie nelle regioni meridionali, ha trovato perfino una sua giustificazione ideologica da parte di buona parte del ceto politico locale, senza troppe differenze di parte. Assegnare uno status di falso invalido, forzando o aggirando la legge, ha significato elargire, sotto forma di un indennizzo e di una gratifica a vita, una sorta di compensazione rispetto a uno sviluppo economico e sociale sempre arretrato, sempre a corto di regole, concorrenza, mercato, opportunità e trasparenza.
E’ stato come mettere in campo un micidiale ammortizzatore sociale che invece di tradursi in un temporaneo aiuto a trovare lavoro e sicurezza, come la cassa integrazione, si è risolto in una stabile assegnazione di soldi pubblici a chi non spettano, come i falsi invalidi, a danno di chi ne ha veramente bisogno, i veri invalidi. L’usurpatore del welfare, con o senza la complicità della malavita organizzata, è diventato l’anello di una catena infinita di sprechi, di ingiustizie, di abusi. E in tanti si sono convinti che i diritti dei cittadini e i doveri di una società non contano nulla rispetto alla certezza di trovare un proprio spazio all’ombra di un meccanismo così pervasivo nel suo funzionamento.
Qui sta la genesi e lo sviluppo di un blocco sociale nel quale, soltanto a proposito di falsi invalidi, una comunità di 300mila persone, come dire una città di medie dimensioni, ha trovato la sua ragione di essere, di stare insieme, di condividere l’illegalità come scelta di vita e di ruolo. Adesso il sistema del welfare a sbafo, e con l’aggiunta di una pistola puntata alla nuca di chi non collabora, è entrato in corto circuito non perché sia maturata una nuova consapevolezza, non in quanto stanno funzionando le preziose indagini della magistratura e le azioni a tappeto di carabinieri, poliziotti e finanziari, ma semplicemente per un dato di fatto: non è più sostenibile. Nessuno è in grado più di garantirlo. Sotto nessuna forma, neanche la più blanda, in quanto mancano le risorse, in parte prosciugate dagli sprechi e dall’illegalità diffusa, e si è perfino sfarinata la compattezza di quella classe dirigente cinica e bara, rimpiazzata da controfigure delle oligarchie meridionali senza né testa né cuore, né idee né passioni.
L’unica via auspicabile, per un blocco sociale in crisi di ossigeno, di identità, e di reciproca protezione, è quella di una rivolta dal basso, di un’energia nuova da mettere sul tavolo in alternativa al sopruso del welfare usurpatore. E’ un’utopia? Può darsi. Ma solo le grandi utopie ci fanno immaginare un mondo migliore, una società più aperta, un Mezzogiorno meno sprofondato nei suoi vizi e nel suo abbandono. E solo l’utopia ci restituisce una variabile fondamentale per il cambiamento: il tempo. Perché ci sarà bisogno di tempo per un Sud diverso, ma quello non sarà sprecato se qualcuno, non una minoranza ma una maggioranza, riuscirà a utilizzarlo nel modo giusto.