Le città italiane a rischio terremoto

Le immagini del terromoto e dello tsunami giapponesi hanno avuto forti ripercussioni psicologiche sulle popolazioni di tutto il mondo, stimolando una riflessione più critica sullo sfruttamento di energia nucleare. Ma quelle immagini hanno colpito in particolare noi italiani, che le devastazioni dovute agli smottamenti della terra le conosciamo bene: dal devastante terremoto-maremoto nello stretto di […]

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Le immagini del terromoto e dello tsunami giapponesi hanno avuto forti ripercussioni psicologiche sulle popolazioni di tutto il mondo, stimolando una riflessione più critica sullo sfruttamento di energia nucleare. Ma quelle immagini hanno colpito in particolare noi italiani, che le devastazioni dovute agli smottamenti della terra le conosciamo bene: dal devastante terremoto-maremoto nello stretto di Messina del 1908, al terremoto dell’ Irpinia, a quello di Gemona del Friuli del 1976 fino ad arrivare ai 6,7 gradi Richter che hanno messo in ginocchio la provincia de l’Aquila, esattamente due anni fa (e che possiamo ricordare con il corto Non chiamarmi terremoto, in esclusiva Web sulla WiredTv).

Del resto, la prima cosa che si nota andando a confrontare le mappe relative alla pericolosità sismica (ovvero alla capacità della terra di generare terremoti di particolare intensità) realizzate dall’ Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) con quelle relative al rischio sismico (il rapporto tra pericolosità e vulnerabilità di infrastrutture e inurbamenti) fornite dalla Protezione Civile, è che non esiste una regione italiana (fatta eccezione forse per la Sardegna) al riparo da un rischio sismico. Le caratteristiche geologiche del nostro paese, la sua posizione, la distribuzione dei centri abitati fanno sì che la penisola sia particolarmente esposta a eventi di tipo sismico che, seppur di minore magnitudo, in alcuni casi producono danni e problemi proporzionalmente più ingenti dei fenomeni sismici giapponesi e californiani.

Com’è naturale, una ricorrenza tragica come quella di oggi ci fa avvicinare la lente di ingrandimento sulle città italiane, e ci spinge a chiederci quante di esse rischierebbero di fare la stessa fine de l’Aquila, se uno dei quasi duemila terremoti registrati ogni anno (la maggior parte inferiori ai 3,5 gradi) sul territorio italiano raggiungesse una simile potenza distruttiva. Ne abbiamo parlato con Gianluca Valensise, dirigente di ricerca presso l’Ingv.

Le città italiane a rischio
Osservando la mappa di pericolosità relativa alle regioni italiane provvista dal sito dell’Ingv, ci si rende facilmente conto di come le zone in cui è più probabile che si verifichino terremoti di elevata potenza non siano disposte casualmente sullo Stivale, ma tendano a concentrarsi in una lunga fascia che attraversa l’Italia per il lungo, dall’ Abruzzo allo stretto di Messina, ricalcando l’andamento della catena appenninica (che, infatti, giace stretta tra la placca africana e quella eurasiatica). Non è un caso se anche nelle mappe tracciate dalla Protezione Civile, che valutano il rischio sismico basandosi sulla media di edifici crollati negli ultimi 100 anni e sulla densità di strutture abitative appartenenti alla classe di vulnerabilità più alta, le zone calde si concentrano sulla dorsale appenninica, e proprio laddove sorgono alcuni tra i centri abitati più popolosi del centro-sud.

Città come Terni, Isernia, Campobasso, Benevento, hanno tutte avuto multiple distruzioni in passato e sono tutt’ora, stando a Valensise, tra gli agglomerati urbani più a rischio. A queste si aggiungono città come Potenza e altri centri calabresi come Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, fino ad arrivare in Sicilia alle città di Catania e Siracusa. Un rischio minore, ma comunque tutt’altro che trascurabile, interessa le città dell’ Umbria, della Toscana settentrionale e del Friuli-Venezia Giulia. Anche la Pianura Padana, pur riscontrando livelli bassi di pericolosità, è a rischio sismico a causa della sua alta densità abitativa. Ma per capire cosa potrebbe succedere nelle località citate, nel caso di un terremoto come quello de l’Aquila, è necessario guardare le cose da una prospettiva differente.

La vulnerabilità dei centri storici
Più che per le città, sarei preoccupato per i grandi centri storici molto fragili”, spiega Valensise: “ Il vero problema sono i centri storici. Dove si concentrano edifici antichi e sicuramente costruiti in un periodo antecedente alle norme sismiche vigenti. Parlo di centri come Catanzaro, Potenza e Reggio Calabria”. Norme che, almeno sulla carta, erano vigenti anche nel caso de l’Aquila, ma che in alcuni casi non sono state osservate, per colpa o dolo, con le tragiche conseguenze che abbiamo visto. Nel valutare il rischio sismico, non va tenuto conto solamente della vulnerabilità degli edifici cittadini (che come anticipavamo prima, spesso risulta drammaticamente alta nelle zone più geologicamente attive), ma anche il grado di esposizione sismica. Questo significa considerare quante persone abitano in ogni edificio, la percorribilità delle vie di fuga, l’ora in cui il terremoto avviene (durante la notte gli uffici si svuotano e le abitazioni rurali si riempiono) etc. In quest’ottica, i centri storici abitati hanno un livello di esposizione più alto, con una vulnerabilità che spesso va di pari passo anche se, come fa giustamente notare Valensise:“ Alcuni edifici storici sono sopravvissuti indenni a secoli di terremoti e hanno perciò superato una sorta di selezione naturale”.

Siti pericolosi a rischio
Dopo tre settimane Fukushima stenta a raffreddarsi, è impossibile non farsi questa domanda: il materiale radioattivo che riposa nel suolo italiano è a rischio? Parrebbe di no. “ Le centrali a suo tempo furono costruite in zone considerate poco sismiche”, spiega Valensise: “ Lo stoccaggio a volte è stato fatto in maniera fortunosa, ma in luoghi non così rischiosi”. E la vituperata Saluggia, ritenuta la discarica italiana delle scorie radioattive, dove le scorie sono presenti anche allo stato liquido, in una posizione sciagurata considerando che a pochi metri scorre la Dora Baltea e a pochi chilometri giace il più grande acquedotto del Piemonte? Valsenise ritiene che il vero problema non risieda nel rischio sismico: “ Io ho la sensazione che le opere pubbliche siano costruite mediamente meglio del patrimonio abitativo, lo dimostra come resistettero i ponti al terremoto in Irpinia.

 
Inoltre, il vero pericolo per un sito come quello non sono i terremoti, quanto le alluvioni”. Tuttavia, il problema tornerà di estrema attualità quando (e se) si dovranno scegliere i siti per l’installazione di nuove centrali nucleari e lo stoccaggio delle relative scorie.

L’Italia è a rischio tsunami?
Certamente sì”, afferma Valensise: “ in Italia si potrebbero verificare maremoti per opera di terremoti o di eruzioni vulcaniche, come nel caso di Stromboli. In gran parte si tratta di fenomeni non confrontabili con quello giapponese, ma in passato la Sicilia ha dovuto fronteggiare onde alte 10 metri, dovute a uno tsunami nello stretto di Messina”. Valensise si riferisce al terrificante terremoto che colpi le città di Messina e Reggio Calabria il 28 dicembre del 1908, con una magnitudo pari a 7 gradi della scala Richter (( qui una mappa dei maremoti storici in Italia)). Al terremoto seguì un maremoto che devastò ulteriormente la città di Messina portandosi via oltre 60mila vittime. In termini di rischio tsunami, dunque, lo stretto di Messina è una zona calda, ma esistono altre zone che potrebbero essere interessate da una simile eventualità. “ Ci sono le zone esposte ai grandi maremoti dell’Est del Mediterraneo, dove possono essere generati terremoti anche superiori agli 8 gradi di magnitudo e che già in passato hanno colpito le coste del Sud d’Italia con onde fino a 5 metri. Poi ci sono le zone soggette a maremoti locali, come le coste a Nord della Sicilia, l’offshore delle Marche, dell’ Abruzzo, della Romagna e del Gargano”. In quest’ultimo caso, le onde spesso non raggiungono il metro d’altezza, ma non per questo sono da considerarsi innocue, dipende dall’ora del giorno, dalle attività presenti sulla costa e da quanta gente è presente in quel preciso istante. Nel 1930, per esempio un maremoto a Senigallia ha fatto danni considerevoli nel porto di Ancona. Una onda simile oggi, ipotizza Valensise, potrebbe portare una distruzione ancora più grave e magari colpire petroliere e oleodotti: “ Tuttavia, va considerato che la costa italiana sale abbastanza velocemente, quindi per fortuna un’onda di uno o due metri si spegne subito.

Tsunami-lampo nel Mar Tirreno
Esistono anche maremoti scatenati da eruzioni vulcaniche, e in particolare, nel nostro Mar Tirreno esistono vulcani sottomarini che, se eruttassero, potrebbero scatenare pericolsi tsunami contro le nostre coste. Il Monte Marsili, il Vavilov, il Magnaghi e il Palinuro sono tutti vulcani sottomarini che riposano sotto le acque tirreniche. Tra questi, il Monte Marsili in particolare è quello su cui oggi sono puntati gli occhi preoccupati dei geologi. Recenti rilevamenti infatti indicano che le pareti del vulcano sarebbero fragili, indebolite e che potrebbero cedere sprigionando il contenuto della grande camera magmatica. Le conseguenze sono difficilmente prevedibili. Quello che si sa è che, a differenza del caso giapponese, se un simile Tsunami avesse luogo non sarebbe preceduto da un terremoto. In assenza di un simile campanello di allarme, sarebbe ancora più difficile fronteggiare il maremoto e prepararsi per tempo all’incorrere della catastrofe.

 

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