Macchine nei boschi, città dai cieli tersi e stellati e animali che vivono in habitat incontaminati. Sono queste le rappresentazioni più frequenti usate nello scenario pubblicitario da multinazionali e grande aziende per promuovere la loro sensibilità alle tematiche ambientali. Una strategia per accattivarsi la simpatia del pubblico, chiamata greenwashing, che permette di creare attraverso l’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste un’immagine positiva delle proprie attività o dei propri prodotti, distogliendo l’attenzione dalle responsabilità di questi stessi gruppi nei confronti dell’inquinamento. E dove per lavaggio verde, si intende quello della loro coscienza.
MARKETING – Infatti, come sostengono i rappresentati dell’Adci, associazione creativi e pubblicità italiana, negli ultimi anni la sostenibilità si è trasformata in una vera propria leva di marketing, motivazione d’acquisto forte a tal punto da spingere i consumatori ad associare un prodotto ecologico al concetto di modernità e a collocare l’azienda che lo produce a un livello più avanzato. Una tendenza, quella della falsa coscienza verde, nata una decina di anni fa negli Stati Uniti e che ha contagiato presto anche le aziende italiane. «Il suffisso eco ormai è dappertutto», spiega Francesco Taddeucci, direttore creativo dell’agenzia Lowe Pirella, «e metterlo induce il consumatore a credere che il prodotto sia etico ed ecologico, quando, in molti casi, lo è solo in parte o peggio per niente. Per le campagne pubblicitarie, sarebbe un atteggiamento migliore da parte delle aziende cercare di diffondere un messaggio onesto. Ad esempio», ipotizza il creativo, «dire "stiamo cercando di avere un impatto ambientale minore anche se non siamo in grado di salvare il mondo perché ancora non abbiamo smesso di inquinare", risulterebbe senz’altro un tono più sincero. E, nel nostro settore, paga sempre di più comunicare qualcosa di vero. Troppo spesso, infatti, si vedono campagne pubblicitarie al limite del surreale, come quella lanciata da una grande casa automobilistica dove il guidatore scendeva dall’auto e veniva abbracciato da un orso come segno di riconoscenza».
LAVAGGIO VERDE – Del resto, per i pubblicitari italiani, l’irrefrenabile corsa al verde si è diffusa a macchia d’olio nel nostro Paese e l’unico modo che ha di difendersi il consumatore è quello di non farsi fuorviare dal bombardamento di messaggi ingannevoli: prestando una maggiore attenzione alle schede dei prodotti e alle diciture delle etichette, oppure cercando in rete giudizi attendibili di altri consumatori, basati sulla conoscenza reale di tematiche ambientali e di principi etici sociali. «Purtroppo su queste tematiche», sottolinea Taddeucci, «in Italia si effettuano pochissimi controlli sulle pubblicità e le maglie per far passare concetti falsi: rispetto all’Inghilterra e agli Stati Uniti sono molto più larghe. Infatti, nei Paesi anglosassoni, l’attenzione degli organi d’informazione e della pubblica opinione ai messaggi trasmessi dagli spot è esponenzialmente superiore. Nel senso che, se un’azienda dichiara qualcosa di non vero in una campagna di promozione, scendono in campo la stampa e le tv nazionali a farli neri».
ITALIA – Tra i pochi casi italiani, la decisione del Giurì dell’autodisciplina pubblicitaria che, lo scorso aprile, ha censurato gli spot dell’acqua Ferrarelle con l’accusa di diciture ingannevoli sulle confezioni. Infatti, la società produttrice dell’acqua minerale dichiarava nella pubblicità bottiglie di plastica a totale impatto zero, una mezza verità visto che la loro produzione è stata compensata dalla riforestazione solamente in parte e non in maniera totale.
GREENWASHER – Non passa quasi mai inosservato invece, soprattutto negli Usa, chi tinge troppo di verde le parole per descrivere articoli o risultati aziendali. Una messa alla berlina che prevede anche una classifica negativa per le peggiori compagnie con annesso boicottaggio dei consumatori sull’acquisto dei loro prodotti. Tra queste aziende, molte segnalate in occasione dell’Earth Day dal rapporto stilato dal gruppo Living green, anche nomi popolari. Ad esempio, vincitrice della palma d’oro come peggiore dei peggiori, la Kraft che per i suoi cereali scelti rimarcava il concetto di ingredienti naturali, mentre in realtà il mais utilizzato per la preparazione è geneticamente modificato. Nel mirino anche la Tyson Chicken per la promozione di prodotti naturali quando la stessa compagnia alleva i polli con gli antibiotici e la Comanche Trace per la pubblicità dei campi da golf, spacciati come habitat ecologici, omettendo che gli stessi campi impoveriscono il suolo naturale e che il costante uso di pesticidi avvelena le acque sotterranee. Bacchettate, poi, la Clairor che con la sua linea di shampoo herbal essences prometteva un’esperienza veramente organica ma che, secondo il rapporto, contiene molti prodotti chimici come il solfato di sodio, e la General Motors per la promozione di auto ecocompatibili con tanto di pubblicità di Suv nelle foreste. Infine, segnalata come industria ingannevole anche l’American Electric Power per la falsa pubblicità di se stessa come azienda attenta all’ambiente, mentre nei fatti la compagnia americana è uno dei maggiori inquinatori di tutto il pianeta con emissioni di gas serra, avvelenamento da mercurio e piogge acide.