L’Africa verde che rischia di sparire

 Internazionale dal nostro inviato ANTONIO CIANCIULLO DZANGA SANGHA – Le ferite della foresta si vedono solo dall’alto. Il Cessna a sei posti che decolla da Yaounde, la capitale del Camerun, impiega due ore e mezza per sorvolare il bacino del Congo fino alla riserva di Dzanga Sangha, 50 chilometri al di là del confine, nella […]

 Internazionale

dal nostro inviato ANTONIO CIANCIULLO

DZANGA SANGHA – Le ferite della foresta si vedono solo dall’alto. Il Cessna a sei posti che decolla da Yaounde, la capitale del Camerun, impiega due ore e mezza per sorvolare il bacino del Congo fino alla riserva di Dzanga Sangha, 50 chilometri al di là del confine, nella Repubblica Centrafricana.

Sulle mappe questo spazio è segnato in verde perché è considerato una massa di vegetazione compatta, una salda barriera tra le megalopoli in espansione e i deserti che avanzano. Ma le mappe mentono.

Appena l’aereo raggiunge i 600-700 metri di quota, appaiono le lacerazioni che sfregiano il tessuto fitto degli alberi. Sono piccole strade dall’aria innocua, piste in terra battuta costruite per catturare qualche briciola di un tesoro naturale che appariva infinito. Anno dopo anno però si sono moltiplicate fino a formare una ragnatela.

Ogni via ha generato grappoli di case e attorno alle case si sono allargate radure in cui la protezione umida offerta dal mantello verde ha ceduto il passo alla morsa arida del sole. Squarci che di tanto in tanto si dilatano: sono segherie che hanno rubato altro spazio chiedendo impianti di produzione elettrica, che a loro volta hanno bisogno di altre strade per far passare i camion, i materiali, gli operai.

"Questi operai spesso si trasformano in disperati all’assalto della foresta", spiega Bryan Curran, un antropologo che lavora nella riserva di Dzanga Sangha. "Nel villaggio qui vicino, a Bayanga, ormai ci sono 4 mila persone: per l’80 per cento vengono da fuori. Erano stati chiamati da una società che aveva deciso di aprire uno stabilimento di lavorazione del legno: nel 2005 ha chiuso e loro si sono trovati senza niente. Cosa pensa che abbiano fatto? Si sono procurati un’arma e hanno cominciato a cacciare di frodo".

Una pila di questi fucili, strumenti artigianali confiscati ai bracconieri, si trova nel deposito delle eco guardie, 42 persone chiamate a sorvegliare 466 mila ettari di foresta. Il risultato di questa missione impossibile è evidenziato dall’enorme catasta di zanne sequestrate, una piccola parte dell’avorio diretto ai mercati clandestini. Con i prezzi attuali ogni chilo vale più di un anno di lavoro nei campi. Un’attrazione che diventa fatale quando ai disperati si aggiungono i trafficanti armati di kalashnikov.

Mitragliatori contro machete perché in Camerun le guardie forestali sono disarmate. "Per prendere i bracconieri abbiamo un’unica possibilità: sorprenderli mentre riposano", racconta Anourou Ousman, che per 100 dollari al mese rischia la vita tutti i giorni. "Li seguiamo per ore senza farci vedere, finché si fermano. Appena hanno posato i mitragliatori abbiamo a disposizione una manciata di secondi: dobbiamo bloccarli prima che riescano a riprendere le armi. Non sempre va bene. Un mio amico è morto due mesi fa: lo hanno catturato e torturato".

E i pericoli non sono legati solo al bracconaggio, ricorda David Hoyle, direttore del Wwf Camerun. Alla pressione dell’industria del legno si è aggiunta quella delle società che cercano ferro, oro, bauxite, diamanti, petrolio. Nel mondo la fame di materie prime aumenta e nella partita si è inserita la Cina con un crescendo impressionante di investimenti. Poi ci sono le coltivazioni di olio di palma: sono arrivate richieste per un milione di ettari, un milione di ettari di foresta da radere a zero.

Assieme agli alberi rischia di scomparire la cultura dei bayaka, i pigmei che per secoli hanno vissuto usando le piante come dispensa e farmacia. Tra le centinaia di vegetali utilizzati dal popolo delle foreste ci sono il kokò, un’erba dal vago sapore di fagioli; le liane che contengono un’acqua simile a quella distillata; il bossò, una corteccia che si usa per curare le carie; il mokata, un viagra naturale.

Per cancellare questa enorme ricchezza naturale basta poco: con qualche colpo di machete e mezz’ora di motosega si trasformano in parquet alberi secolari facendo salire il conto delle emissioni serra. La deforestazione è responsabile del 13 per cento dei gas che minacciano la stabilità climatica – precisa Riccardo Valentini, direttore del Dipartimento scienze forestali dell’università della Tuscia – e il bacino del Congo perde ogni anno 700 mila ettari di verde.

"Per salvare questo patrimonio dell’umanità stiamo lanciando anche in Italia, con l’arrivo di Yolanda Kakabadtse, l’ex ministro dell’Ambiente dell’Ecuador che si è battuta per inserire nella costituzione la difesa della natura come misura del benessere, la campagna per la protezione del cuore verde dell’Africa", annuncia Isabella Pratesi, responsabile Wwf per la conservazione.

"Il bacino del Congo è l’Amazzonia africana: con i suoi 2 milioni di chilometri quadrati, sette volte l’Italia, è la seconda foresta pluviale al mondo. Ospita 10 mila specie vegetali, 400 specie di mammiferi, 1.000 di uccelli, 1.300 di farfalle e specie simbolo come il gorilla, il leopardo, lo scimpanzé, l’elefante delle foreste. Non possiamo lasciarlo distruggere dai bracconieri e da chi vuole strappare alla terra le ultime gocce di petrolio".

 

 

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