“Il vostro posto di lavoro è quello giusto?”. In Europa uno su quattro dice no

Accorgersi che il lavoro che si fa non è quello giusto. Può capitare d’improvviso, in un mattino qualsiasi, per colpa del disagio provato durante una riunione tra colleghi e dirigenti. O convincersene piano piano. Giorno dopo giorno, come uno scienziato che arriva a capire un fenomeno solo dopo averci ragionato per anni. In Europa quattro […]

Accorgersi che il lavoro che si fa non è quello giusto. Può capitare d’improvviso, in un mattino qualsiasi, per colpa del disagio provato durante una riunione tra colleghi e dirigenti. O convincersene piano piano. Giorno dopo giorno, come uno scienziato che arriva a capire un fenomeno solo dopo averci ragionato per anni. In Europa quattro lavoratori su dieci si lamentano di svolgere un lavoro che ha poco a che fare con se stessi, con le proprie competenze e con i propri studi. I risultati sono quelli di un’indagine di Eurobarometro che ha interrogato 13 mila persone sul grado di benessere mentale degli europei anche in rapporto alla professione che svolgono quotidianamente.

Meglio danesi e finlandesi. Il fenomeno non si manifesta ovunque con la stessa intensità e, a livello nazionale, emergono significative differenze. Quelli che in Europa si sentono di ricoprire il giusto incarico, lavorano soprattutto in Danimarca. Ma anche in Finlandia, Austria, Germania e Slovacchia. In tutti questi paesi le quote di coloro che considerano il proprio impiego come coerente e adeguato, agli studi e alle competenze, sono superiori a quelle della media europea. Tutte al di sopra dell’80 per cento.

Il disagio dei francesi. A provare, al contrario, una sensazione di “estraneità” è soprattutto chi ha un impiego in Francia. Forse non è un caso che proprio oltralpe, qualche anno fa, venne scritto il best-seller (Buon giorno pigrizia di Corinne Maier) che ha sedotto molti e che invitava a fare in ufficio il meno possibile. Se il merito non viene quasi mai premiato, diceva l’autrice, tanto vale farsi furbi. Nella nazione, caratterizzata anche dall’esperimento della settimana lavorativa a 35 ore, un terzo ritiene che qualcosa negli anni sia andato storto e che il posto di lavoro non sia in linea con i propri studi e competenze. Ma non è solo una questione francese. Pure in Gran Bretagna la quota è piuttosto alta così come in altri paesi.

Posizioni e classi sociali. Anche In Italia le percentuale è leggermente superiore alla media continentale. Da noi a sentirsi fuori luogo sono il 25 per cento, mentre il 73 per cento è convinto che l’attuale lavoro rifletta la proprie competenze, la propria formazione e istruzione. Su un piano continentale, siamo al settimo posto per disagio tra tutti i paesi dell’Ue a 27. In Europa, così come in Italia, a sentirsi al posto giusto sono soprattutto quelli che ricoprono posizioni di prestigio e ruoli manageriali. Nel loro caso si toccano percentuali vicine all’85 per cento. Anche chi proviene da una classe sociale elevata è spesso quasi sempre in “sintonia” con la propria professione e con quello che questa implica quotidianamente.

Semmai ci fosse stato bisogno di una conferma, il disagio cresce soprattutto quando ci si allontana dai vertici della piramide delle organizzazioni aziendali e della società. Quelli che si sentono più fuori luogo sono infatti coloro che svolgono lavori manuali ma anche tutti quelli che dicono di appartenere alle classi sociali più svantaggiate.

Le differenze d’età. Anche tra le diverse generazioni si ripropongono disparità nei modi di percepire se stessi all’interno del mondo del lavoro. Per un terzo degli “under 24” l’impiego non riflette adeguatamente gli studi fatti. Dice lo stesso il 26 per cento di chi ha un’età compresa tra 25 e 39 anni. Le percentuali tendono a scendere sensibilmente man mano che cresce l’età. Sopra i 55 anni gli “inadeguati” sono il 19 per cento. Forse perché, con gli anni, cresce la capacità di sopportare quel che ci propone la realtà o perché si rinuncia al desiderio interiore che ci fa sperare di avere qualcosa di diverso (e migliore) di quel che ci viene dato.

I mancanti riconoscimenti. Gli autori dell’indagine hanno cercato di comprendere se tutto quello che si fa sul lavoro viene poi, in qualche modo, riconosciuto. Nel complesso è abbastanza condivisa la percezione di un adeguato riscontro all’impegno e ai risultati conseguiti. Questo accade soprattutto in Svezia e Danimarca. I paesi del Nord Europa, si può dire, sono in qualche modo, ancora una volta, una specie di frontiera in cui il “benessere” è più diffuso.

Anche su questo parametro si registrano però elementi rivelatori di disagio. Un lavoratore su cinque afferma di non ricevere sufficiente rispetto o riconoscimento per quel che fa. Questo accade soprattutto in Romania e Ungheria, dove si registrano quote che oscillano tra il 32 e il 30 per cento di persone. In Italia la quota è pari al 19 per cento.

Le condizioni di lavoro. La soddisfazione che si trae dal lavoro non ha a che fare solo con una percezione soggettiva della propria condizione, e rimanda a qualcosa di più generale. Se si guarda a un ampio arco di anni, le condizioni di chi lavora non sembrano essere migliorate, semmai si è registrato un peggioramento. Le retribuzioni hanno generalmente perso potere d’acquisto e i contratti di lavoro sono sempre di più precari. A questo si aggiungano anche altri aspetti qualitativi cruciali per il benessere sul lavoro. Secondo uno studio realizzato dal Cee (Centre d’études de l’emploi, les politique et le marché du travail) negli ultimi anni si stanno facendo i conti con un’accresciuta intensità dei ritmi, un peggioramento delle condizioni di impiego e una minore complessità delle mansioni. In qualche modo, il lavoro sembra essere divenuto più routinario e ha costretto tutti a fare sempre di più i conti con le "spinte" tecnologiche e quelle del mercato. E sembra innegabile che, a pagare le conseguenze di tutte queste mutazioni, sono ancora una volta, purtroppo, quelli che dal lavoro avevano già meno.

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