Il piano Marshall per salvare i parchi in agonia

ANTONELLA MARIOTTI Direttori che compilano i turni delle pulizie di uffici e bagni, inserendo anche il loro nome. Guardie parco che «controllano» il territorio in bicicletta. Dodici parchi nazionali senza Consiglio direttivo (su 24) e altri sei ce l’hanno, ma incompleto. Bilanci tagliati del 70%, poi in parte rimpinguati, ma solo per la spesa corrente, […]

ANTONELLA MARIOTTI

Direttori che compilano i turni delle pulizie di uffici e bagni, inserendo anche il loro nome. Guardie parco che «controllano» il territorio in bicicletta. Dodici parchi nazionali senza Consiglio direttivo (su 24) e altri sei ce l’hanno, ma incompleto. Bilanci tagliati del 70%, poi in parte rimpinguati, ma solo per la spesa corrente, cioè stipendi e amministrazione. Di progetti neanche parlarne. E circa il 20% del Bel Paese rischia il «saccheggio o la lenta agonia».

E’ iniziato a San Rossore il dibattito sul futuro dei parchi e delle aree protette italiane. «Si è fatto un check-up della situazione e ora il rischio è che si passi all’autopsia. Guardiamo solo a quello che è accaduto allo Stelvio e ai progetti di campi da golf nel Parco Nazionale d’Abruzzo». Renzo Moschini, esperto di aree protette, riconosciuto come uno dei massimi esperti del «bene natura», ha radunato attorno a un tavolo 800 tra dirigenti, ex dirigenti (sostituiti dai commissari), «lavoratori» delle aree protette. E’ nata così la «Carta di San Rossore».

E non si parla solo di tagli ai bilanci. «Da oltre 10 anni il ministero dell’Ambiente non svolge alcuna regia nazionale degna di questo nome – dice Moschini -. A 20 anni dalla leggequadro le aree protette marine sono in stato preagonico o comunque in grave crisi». Nella carta di San Rossore non c’è spazio per un diplomatico richiamo d’attenzione alle istituzioni: «La situazione non è mai stata così critica. Non solo per drammatici tagli, che già dimostrano una sconcertante irresponsabilità di governo, ma anche tutta una serie di minacce e di proposte strampalate che sono il segno evidente dell’assoluta mancanza di consapevolezza della funzione generale a cui oggi sono chiamate le aree protette, del loro ruolo istituzionale e del loro rapporto con e altre forme di governo del territorio». E si punta il dito contro i commissariamenti, le prolungate gestioni provvisorie e «le persistenti diatribe politico-istituzionali, fino alle recenti decisioni sul Parco dello Stelvio. Su questo quadro pesa inoltre una ormai annosa latitanza del ministero dell’Ambiente». A onor del vero qualche direttore di parco riconosce al ministro Prestigiacomo di aver recuperato un po’ di fondi, quelli per pagare gli stipendi ai 2 mila dipendenti, ma non basta. «Il dibattito sul federalismo poi rischia di pregiudicare ancora di più la situazione, incentrato com’è sull’idea di un separatismo che impedirebbe qualsiasi politica di sistema». I parchi, in effetti, abbracciano territori di diversi comuni, province e regioni.

E, allora, che cosa fare? «Dobbiamo far uscire i parchi dall’angolo, dove la cultura li ha sempre messi». Ippolito Ostellino, direttore del Parco del Po, punta sui progetti, sul fare economia «sostenibile» nelle aree protette. Nulla a che fare con il «biglietto di ingresso» proposto dalla Prestigiacomo e che ha fatto tremare i polsi agli ambientalisti. «Non ci si deve appiattire sul tema natura – spiega -. Negli Usa i parchi dipendono dal ministero degli Interni. Hanno un bagaglio di biodiversità che si può sfruttare, anche se sotto controllo, ovviamente». Il rischio è che fare impresa con la natura faccia male alla natura stessa e allora c’è chi suggerisce: «Cominciamo con il tagliare certi costi inutili. E’ uno scandalo che il consiglio direttivo di alcuni parchi incida per il 30% del bilancio e, se il bilancio è di 100 mila euro, mi dice cosa si può fare con quello che avanza? Sono persone nominate politicamente che si riuniscono due o tre volte al mese. Dovrebbero farlo a titolo gratuito».

 

 

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