Il “monumento parlante” dell’imbroglio calabrese

Quella sera venne giù il finimondo in Calabria. Pioggia, freddo, vento. Nere foreste sembravano invadere la strada e nei canaloni i torrenti si ingrossavano. Ero sulle Serre, per raccontare una storia di mala-acqua. La politica aveva costretto molti Comuni a rinunciare alle loro antiche fonti indipendenti per attingere a un lago artificiale di pessima fama. […]

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Quella sera venne giù il finimondo in Calabria. Pioggia, freddo, vento. Nere foreste sembravano invadere la strada e nei canaloni i torrenti si ingrossavano. Ero sulle Serre, per raccontare una storia di mala-acqua. La politica aveva costretto molti Comuni a rinunciare alle loro antiche fonti indipendenti per attingere a un lago artificiale di pessima fama. La diga – Alaco si chiamava – era costata cento volte più del preventivato, l’acqua non era buona, le bollette erano rincarate e mezza montagna, tra Lamezia e Aspromonte, era in rivolta. Solo qualche sindaco, come quello di Soriano, aveva fiutato la fregatura ed era rimasto allacciato alla sua sorgente.

Pioveva insomma su Serra San Bruno, e io correvo tra le case per trovar riparo nell’auto lasciata presso il fiume, quando sentii risate e il suono di una zampogna venire da una finestra illuminata. Accanto la porta c’era scritto “I briganti”; doveva essere un’associazione di amiconi intenti a celebrare qualcosa. L’invito era irresistibile: bussai e, senza aspettare che mi aprissero, entrai d’impeto in una stanza occupata interamente da una tavolata con una decina di uomini, una stufa crepitante e un bancone da bar. Dal soffitto pendevano campanacci e catene, e le pareti erano coperte di vecchie foto, tra le quali distinsi ritratti di Clint Eastwood, Che Guevara e di Sharo Gambino buonanima, uno che aveva speso la vita contro la N’drangheta.

Senza troppe domande la brigata mi allungò un piatto di scaloppe ai porcini e un rosso denso di Bivongi, e intanto il suonatore di cornamusa – un tipo davvero brigantesco, bruno dagli occhi febbrili – s’era qualificato come Sergio, figlio del sunnominato Gambino. Ero dunque a una cena “partigiana”, e così, quando spiegai la mia missione sulle Serre, piovvero storie di ogni tipo. Non c’era solo la mala-diga dell’Alaco. C’era anche la “Faida dei boschi”, una catena senza fine di vendette innescate dall’ammazzamento di tale Damiano Vallelunga, trent’anni prima, davanti alla chiesa dei santi Cosma e Damiano a Riace. Tutti i killer erano stati uccisi in diversi agguati. Uno – mi disse l’allegra tavolata – era stato seviziato a morsi dai parenti del boss e infine strangolato.

Dissero poi che, accanto alla diga dell’Alaco, non avevo visto “il meglio”: un albergo abbandonato dopo un’effimera gestione dei soliti noti, e insistettero perché lo visitassi in quanto “monumento parlante” dell’imbroglio calabrese. Era stato inaugurato nel 1996, con vescovo, arcipreti, onorevoli e il meglio della Reggio-bene, e ora già le mucche delle Serre vi entravano liberamente. Un’altra casa degli spiriti! Tirai fuori dal sacco la mia mappa dei luoghi perduti che mi accompagnava fedelmente da mesi e, con soddisfazione della tavolata carbonara, vi aggiunsi l’hotel delle Serre. Per qualche anno, mi dissero, quello era stato il luogo appartato dove prendere le “decisioni che contano”. Dentro c’era di tutto, gran cucina, prato inglese, personale deferente, stanze con vista sul lago. Si erano solo dimenticati delle fogne: gli scoli finivano a cielo aperto nei boschi della malavita.

No, per nessuna cosa al mondo avrei rinunciato ad andarci l’indomani, con o senza pioggia. Lo dissi, e il capo-banda Sergio Gambino solennizzò la promessa con un’altra suonata di cornamusa. Riempì la pelle di capra, gonfiò le guance fino a rendersi irriconoscibile e, accompagnato dal tamburello di Salvatore, strappò dallo strumento un lamento di malinconia che sembrava scozzese e invece era la quintessenza dell’Appennino. Lì, con i capelli neri lucidi e la barbetta da spadaccino, per un attimo parve un hidalgo sulla strada della Terra Santa. La zampogna, disse, gliel’aveva fatta ziu Pepe, detto “la pùlici”. Poi portò in tavola un piattone di pere e formaggio, e i coltellini a serramanico della banda lampeggiarono in simultanea fuori dalle saccocce o dalle tasche dei pantaloni.

Il giorno dopo risalii al lago, scortato da due “briganti”. Pioveva ancora, il freddo s’era fatto più freddo, brandelli di nubi correvano tra i due mari svelando funeree pale eoliche in movimento. C’era qualcosa di fiabesco in quella gita tra i boschi della faida più sanguinosa d’Italia; mi sentivo un po’ Pinocchio all’osteria del Gambero Rosso. Ero sull’altopiano della Lacinia, e Antonio che mi accompagnava disse che il luogo era stato un incanto prima che la diga rovinasse tutto. Arcipelaghi di paludi piene di ninfee, ginestre ed enormi biancospini. Una delle zone umide più integre d’Italia. “C’è anche la leggenda di una baronessa che s’intratteneva, diciamo così, con i boscaioli e poi li buttava nelle sabbie mobili”.

L’Hotel Oasi dell’Alaco comparve nella nebbia, circondato da un muro e cancelli scorrevoli che potemmo aprire senza difficoltà. Intorno vi pascolavano liberamente mucche bianchissime di antica stirpe longobarda. La gente delle Serre le chiamava “vacche sacre”, perché erano intoccabili. In qualsiasi altro posto sarebbero state rubate, ma lì no, perché erano le vacche della mala. Non servivano a far carne e nemmeno latte. Erano lì solo per segnare il territorio, e il territorio, non a caso, era quello intorno alla diga. Si muovevano come al rallentatore, surreali, e intanto la pioggia era diventata temporale.

Entrammo, le porte erano semiaperte, e dentro a sorpresa c’era ancora tutto. Tavoli, posateria, bicchieri, specchiere, credenze, telefoni staccati, un biliardo di gran marca. Regnava il disordine, ma il gli arredi erano ancora lì, perché anche lì tutto era intoccabile. Come le vacche di fuori. L’italica devastazione aveva risparmiato il luogo, e la ragione era evidente. Tuonava e noi camminavamo con imbarazzo, come una pattuglia di carabinieri cui tocca perquisire la casa di un Mammasantissima. Ne erano venute di persone importanti da queste parti, e ora chissà dove erano finite. Nomi noti in Calabria, come Giuseppe Ventura, Orazio D’Ascola, Sergio Miceli. Venivano anche i boss e i latitanti, la sera giocavano a carte nel patio. Alla reception trovammo tessere in bianco di “Forza Italia”, dunque c’erano anche i politici, e ora il vento era l’unico inquilino.

Ci muovevamo lenti, sembravamo sommozzatori in un relitto inclinato su fondali corallini. Le pale eoliche erano annegate in un mare di nubi. Al posto dei pesci, fruscìo di uccelli. Al secondo piano c’era un nido con sei uova. Passeri spaventati dal nostro arrivo sbatterono contro i vetri delle finestre. Qualcuno aveva rovesciato la terra dei vasi di fiori; ma era solo piccolo vandalismo. Niente furti all’ex hotel dell’Alaco. I cassetti erano pieni. Giornali del 2006, buoni-sconto, elenchi di ospiti, menù di cene nuziali. Nella cucina l’olio della frittura era ancora nelle vasche. Era come se una nube di cloroformio avesse addormentato tutti, come se tutte le Serre e la Calabria intera fossero sprofondate in un sonno senza fine.

Ma il bello doveva ancora venire.

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