Il lavoro c’e’, ma noi lo rifiutiamo. E lo prendono gli immigrati

Un quarto degli italiani sperimenta il rischio della povertà e 500mila giovani hanno perso il lavoro negli ultimi due anni: la desolante fotografia dell’Istat ci consegna ancora una volta l’immagine di un Paese povero di futuro. Da un lato si allarga la percezione di un impoverimento e la perdita del benessere conquistato nel secondo Novecento, […]

Un quarto degli italiani sperimenta il rischio della povertà e 500mila giovani hanno perso il lavoro negli ultimi due anni: la desolante fotografia dell’Istat ci consegna ancora una volta l’immagine di un Paese povero di futuro. Da un lato si allarga la percezione di un impoverimento e la perdita del benessere conquistato nel secondo Novecento, dall’altro versante si tagliano le gambe alle nuove generazioni. In mezzo c’è sempre il lavoro, e innanzitutto la difficoltà di trovarlo secondo le proprie aspettative e in base a una coerente formazione.

I numeri sono numeri, e anche quelli certificati dall’Istat vanno interpretati nella giusta dimensione. I 500mila posti che i nostri ragazzi hanno perso corrispondono, guarda caso, esattamente al totale della nuova occupazione, nei settori del lavoro manuale, che nello stesso arco di tempo gli italiani hanno rifiutato a vantaggio degli immigrati. Che cosa è accaduto? Una sottocultura della formazione ha favorito la cancellazione delle attività legate alla manutenzione, considerandole di serie B, e ha scatenato un micidiale effetto missmatch, che significa il mancato incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro. Abbiamo moltiplicato lauree deboli (quasi seimila corsi in tutta Italia) e dequalificato licei professionali che invece tengono in piedi l’occupazione in paesi solidi, come per esempio la Germania. Abbiamo bisogno di sarti, elettricisti, falegnami, idraulici, addetti alle pulizie, giardinieri, muratori. E invece continuiamo a sfornare laureati in Sociologia e in Scienze delle comunicazioni che non hanno alcuna possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Titoli di studio inservibili, come se ancora dovessimo rincorrere il “pezzo di carta”, hanno scoraggiato intere generazioni, il 21 per cento della popolazione, di ragazzi neet (non in education, employment or training) che non si formano e non lavorano. Magari si arrangiano, protetti dall’ombrello di una famiglia che li accudisce.

Nel mondo le cose non vanno allo stesso modo. In America, sempre all’avanguardia nell’esplorare le nuove opportunità, è stata appena pubblicata una ricerca condotta dalla Georgetown University che contiene la classifica delle dieci professioni del futuro, quelle dove ci sono e ci saranno più spazi per le nuove generazioni. Sono lavori che hanno in comune sempre la stessa parola: manutenzione, delle persone e delle cose. Quella che noi rifiutiamo, disprezzando l’homo faber e le sue attività. E nella stretta cerchia dei super consulenti economici di Barack Obama c’è anche Matthew Crawford, una personaggio dalla doppia personalità, filosofo e meccanico, che ha raccontato la sua storia e il riscatto del lavoro manuale in un libro diventato rapidamente un best seller negli Stati Uniti.

Il lavoro in Italia, dunque, non manca a causa di una recessione i cui effetti di lungo periodo sono ancora tutti da decifrare. Il lavoro manca anche perché non riusciamo a coglierne aspetti essenziali, compresi quelli di un cambiamento d’epoca. La manualità merita rispetto, dignità, riconoscimento: contiene una carica di futuro di cui abbiamo bisogno come l’ossigeno. E oltre a tagli non orizzontali, ma mirati all’eliminazione degli sprechi, nel nostro sistema formativo, scuole e università, servirebbero investimenti significativi per eliminare l’effetto missmatch. E per convincere un ragazzo che con una laurea in Comunicazione nella società della globalizzazione è condannato a restare disoccupato, mentre con un valido diploma professionale avrebbe solo l’imbarazzo della scelta per entrare dalla porta principale nel mondo del lavoro.

 

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