Il governo ha lavorato 15 ore in 3 mesi

Carlo Bertini   Roma- Un dramma che tocca un nervo scoperto come le competenze delle Regioni che devono avere voce in capitolo su tutto. Assenti Berlusconi e Bossi, che con l’aria che tira forse hanno preferito marcarsi a distanza, il Consiglio dei ministri, presieduto dal ministro più anziano Altero Matteoli, non è approdato a nulla. […]

Carlo Bertini

 

Roma- Un dramma che tocca un nervo scoperto come le competenze delle Regioni che devono avere voce in capitolo su tutto. Assenti Berlusconi e Bossi, che con l’aria che tira forse hanno preferito marcarsi a distanza, il Consiglio dei ministri, presieduto dal ministro più anziano Altero Matteoli, non è approdato a nulla. E dire che in questi tre mesi, malgrado la paralisi legislativa delle Camere dovuta ai numeri traballanti, il «governo del fare», come lo chiama Berlusconi, qualcosa invero lo ha fatto. Con esiti disparati.

Quattordici riunioni, una media di 65 minuti l’una, 905 minuti nel complesso e cioè 15 ore e passa di lavoro, con record di rapidità – 10 minuti il 31 maggio, 20 minuti il 19 maggio – e picchi di impegno: come le due ore e 15 minuti dedicate il 5 maggio al decreto sviluppo e al codice del turismo voluto dalla Brambilla. Il 3 marzo via al decreto legislativo sul federalismo municipale, bocciato in precedenza dalla Bicameralina e oggi fonte di lamentazioni dei sindaci d’ogni colore, leghisti in testa, alle prese con i bilanci in rosso; il 23 marzo, dopo il grido di dolore del mondo della cultura e lo sciopero dei «sipari» in molti teatri, arrivano 149 milioni per rifinanziare il Fondo Unico per lo Spettacolo, reperiti però aumentando le tasse sulla benzina, con scarso gradimento degli automobilisti. Lo stesso giorno, sempre nel decreto omnibus, spunta alla voce «taglio dei costi della politica» la norma poi ribattezzata «salva-Alemanno e Moratti» per evitare alle città con più di un milione di abitanti il taglio dei consiglieri comunali da 60 a 48: affossata due giorni dopo grazie alla moral suasion del Quirinale.

Ma anche quando il plenum del governo partorisce qualche riforma epocale, sempre accompagnata da dichiarazioni reboanti, come la decantata «frustata» all’economia, annunciata ai tiggì il 9 febbraio scorso, per vederla realizzata bisogna aspettare clima propizio e armonia tra alleati, due fattori che da mesi scarseggiano. Dunque che fine ha fatto il disegno di legge di modifica degli articoli 41, 97 e 118 della Carta varato in febbraio per semplificare la vita alle imprese? Fermo nella commissione Affari Costituzionali in paziente attesa di una spinta propulsiva che lo diriga verso i lavori dell’aula. E che fine ha fatto la legge Carfagna approvata dal Consiglio dei ministri prima dei ballottaggi il 19 maggio, per le pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive dei Consigli comunali, provinciali e delle amministrazioni pubbliche?

Nell’elenco degli atti parlamentari di Camera e Senato rientra tra le non pervenute, nel senso che ancora non è stata assegnata ad alcuna commissione. Ecco, scorrendo i provvedimenti di legge adottati dal governo da marzo a oggi, tranne i decreti legislativi, cinque figurano come norme già approvate: una di queste, che ha impegnato la Camera in uno scontro maggioranza-opposizioni sulla richiesta di fiducia, è appunto il decreto omnibus, quello che conteneva la moratoria sul nucleare che si sa che fine abbia fatto. Poi c’è il decreto sullo svolgimento delle assemblee societarie; la legge per gli assegni una tantum ai nostri militari e alle forze dell’ordine; le disposizioni urgenti per il voto sui referendum degli italiani all’estero; e la proroga per la delega sul federalismo fiscale, tanto cara al Carroccio e che quindi non si poteva rinviare oltre.

Quella che si può rinviare a tempi migliori, se verranno, è invece la riforma costituzionale della Giustizia, varata all’unanimità il 10 marzo su input di Berlusconi e con la firma di Angelino Alfano. Assegnata col nome di Riforma del titolo IV della parte II della Costituzione, è quella con la separazione delle carriere e il doppio Csm: ferma da settimane nelle due commissioni di merito dove sono in corso audizioni a ripetizione di giuristi e alti magistrati, a detta degli stessi dirigenti Pdl «può pure arrivare in aula, ma senza accelerare troppo…». Da qui all’estate infatti a tenere banco nel governo saranno piuttosto la manovra economica e la delega della riforma fiscale che già alimentano polemiche a iosa.

Il Consiglio dei ministri dovrà dare l’ok entro giugno con una tabella di marcia incalzante: dopo il via libera al tormentato decreto sviluppo questa settimana, dopo il giro di boa di Pontida, dopo i due voti di fiducia sulla verifica parlamentare il 21 e 22 giugno, Responsabili permettendo, il giorno dopo la manovra dovrebbe ricevere il timbro del Consiglio dei ministri, magari accompagnata da un’anticipo della delega sulla riforma fiscale. Nel frattempo le Camere saranno impegnate a dirimere partite in sospeso come la legge comunitaria, che come ogni anno avrebbe dovuto essere approvata entro dicembre per evitare le sanzioni dell’Ue sulle direttive non recepite. E che, invece, è ancora ferma al palo in Commissione.

 

 

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