Il capitalismo ridotto come una foglia secca

Cari lettori, vi segnalo questo denso pezzo di Emanuele Severino che trovate nella newsletter della Fondazione Roberto franceschi Onlus, perché contiene argomenti molto fondati su un tema molto caro alla comunità del Non Sprecare: come possiamo immaginare un capitalismo, e un modello di sviluppo, meno ingiusto e più equilibrato di quello attuale. Buona lettura. Durante […]

Cari lettori, vi segnalo questo denso pezzo di Emanuele Severino che trovate nella newsletter della Fondazione Roberto franceschi Onlus, perché contiene argomenti molto fondati su un tema molto caro alla comunità del Non Sprecare: come possiamo immaginare un capitalismo, e un modello di sviluppo, meno ingiusto e più equilibrato di quello attuale. Buona lettura.

Durante una crisi come quella che stiamo vivendo si rafforza il fastidio per tutte le forme di cultura che non aiutano a risolvere problemi economici o politici ben precisi. In una nave che affonda, chi non aiuta a chiudere le falle è un peso inutile. Si vuole «ciò che serve», e serva innanzitutto ora, qui. Ma anche l’estimatore di ciò che serve può capire che in sostanza si agisce a caso, e dunque è un caso che l’agire serva, se non si sa in che mondo si vive, quale sia il suo passato, verso dove esso stia andando. Se si lavora alle falle senza sapere che ci si trova su una nave che affonda, non si sa nemmeno di star lavorando alle falle. Invece di riparare il danno, lo si aggrava. Accreditate a dire in che mondo ci troviamo sono oggi soprattutto le discipline scientifiche. Dove i metodi e i parametri delle scienze fisico-matematiche tendono a diventare i modelli non solo delle altre scienze, ma anche del modo in cui si organizzano le istituzioni sociali. Non solo, ma sono tali metodi e parametri — molto più omogenei rispetto a quelli delle altre scienze — a stabilire la configurazione dell’apparato tecnico di cui si servono le grandi forze che oggi, dopo la fine del comunismo sovietico, intendono guidare il mondo: capitalismo, democrazia, cristianità, islam, quella specie di simbiosi di capitalismo e comunismo che è venuta a formarsi in Cina. Queste forze si servono della tecnica; ossia la tecnica è ciò che più serve per realizzare gli scopi, peraltro tra loro contrastanti, che esse intendono realizzare. Nella maggior parte dei Paesi economicamente avanzati, quel che oggi serve per uscire dalla crisi ha lo scopo di rimettere in sesto la forma capitalistica della produzione della ricchezza (una forma che è il quadro, o il contenitore, in cui ricevono senso anche le varie istanze di «rigore», «equità», «crescita»). La tecnica è ciò che più serve per perpetuare tale forma. Tuttavia si sorvola sulle implicazioni del rapporto tra il mezzo (ciò che serve) e lo scopo (ciò che si vuole produrre), e quindi tra la tecnica e le forze che intendono servirsi di essa per realizzare i loro scopi. Si sottovaluta tra l’altro la circostanza che, servendo, il mezzo si indebolisce, si logora, si consuma; e che è inevitabile che ciò accada affinché lo scopo viva e si mantenga sano e integro il più possibile. Appunto per questo, quando si vuol raggiungere uno scopo, sono i mezzi logorati e consumati a esser sostituiti: non si sostituisce lo scopo (che per il capitalismo è un mondo capitalista, per la democrazia un mondo democratico e così via). Per perpetuare se stesso — e il discorso vale anche per tutte quelle altre forze che oggi vogliono mettersi alla guida del mondo — il capitalismo si serve di una consistente frazione dell’apparato tecnico-scientifico. Ma proprio perché se ne serve, lo regola. Quindi lo limita. Ad esempio non gli consente di servire altri «padroni» e di attivare forme alternative di potenza; rinchiude la ricerca di innovazioni all’interno di una certa area e ne stabilisce la direzione; la concorrenza impedisce a ogni gruppo capitalistico di render noti agli altri gruppi i propri progressi nella ricerca; non produce merci per chi non ha denaro per comprarle, ecc. Pertanto, anche se ne sostituisce continuamente gli operatori umani, le macchine, i meccanismi e le apparecchiature particolari, il capitalismo frena l’insieme di tale apparato: lo indebolisce, ne logora le potenzialità, lo consuma. Ma indebolire e consumare l’apparato tecnico di cui il capitalismo si serve allo scopo di tenere in vita se stesso significa indebolire il mezzo che deve realizzare tale scopo, significa cioè impedire la realizzazione dello scopo (in generale — per quanto l’affermazione possa suonare fastidiosa o capziosa — servirsi di un mezzo per raggiungere un certo scopo significa ostacolare la realizzazione di tale scopo. Una contraddizione, questa, che, daccapo, non riguarda soltanto il capitalismo, ma anche tutte quelle altre forze di cui si è detto). Si aggiunga che la tecnica è oggi il mezzo più potente per realizzare scopi e quindi, se i singoli elementi da cui esso è composto possono e debbono esser sostituiti continuamente, l’apparato, invece, nel suo insieme, non può esser sostituito da alcun altro mezzo che abbia la stessa potenza ed efficacia. Ora, tutto questo va messo in relazione all’ulteriore circostanza che il capitalismo e ognuna di quelle altre forze si trovano tra di loro in conflitto. In questa situazione, lo scopo di ognuna di esse viene a essere costituito non solo da ciò che la definisce e la differenzia, ma anche dalla salvaguardia e dal potenziamento del mezzo — la tecnica — con cui essa intende realizzare i propri scopi specifici prevalendo sugli scopi delle forze antagoniste. Ad esempio, l’intenzione originaria del capitalismo è di avere come scopo ultimo, unico e specifico l’incremento del profitto privato. Ma di fatto il capitalismo è costretto a tradire le proprie intenzioni. Infatti, se e poiché i suoi avversari — poniamo l’economia cinese o l’integralismo islamico — per prevalere rafforzano le loro tecniche più di quanto il capitalismo non rafforzi le proprie, allora o il capitalismo lascia che l’avversario prevalga, e quindi perisce, oppure, per non perire ed esser lui a prevalere, deve rinunciare ad avere come scopo ultimo e unico l’incremento del profitto, ossia deve assumere come scopo ultimo anche un potenziamento tale, dell’insieme delle proprie tecniche, che sia maggiore di quello messo in atto dall’avversario. Ma rafforzarle in questo modo è l’opposto di quel lasciarle logorare che è dovuto al loro essere assunte come mezzo che ha il compito di far vivere lo scopo. Nel proprio scopo, il capitalismo viene cioè a dare spazio a quel potenziamento e toglie spazio al proprio scopo specifico e originario (l’incremento del profitto privato). Sì che anche in questo caso il capitalismo, indebolendo il proprio scopo caratterizzante e originario, incomincia a perire. Sia che perda sia che vinca, perisce. Giacché — e questo è uno dei nodi concettuali decisivi sui quali le scienze economiche (ma non solo esse) sorvolano — se lo scopo di un agire cambia, l’agire stesso diventa qualcosa di diverso da ciò che era. Nel caso considerato: l’agire non è più capitalistico, è diventato o sta diventando qualcosa di diverso, che si tratta di decifrare (solo i cattivi osservatori credono che sia rimasto identico). E ognuna delle forze che oggi si propongono di guidare il mondo è attesa dalla stessa sorte del capitalismo: se non riescono a prevalere sul proprio avversario tecnicamente più potente periscono; ma periscono anche se prevalgono; giacché possono prevalere solo potenziando le proprie tecniche fino a farle diventare la parte preponderante dei loro scopi. Ciò significa che il nostro è il tempo in cui è destinata a prevalere l’organizzazione tecnico-scientifica del mondo (con tutte le precisazioni che da più di quarant’anni vado indicando). Nella sua essenza, il mondo in cui quelle forze credono di vivere è già morto. Come le foglie secche ancora attaccate ai rami. Molte le diagnosi. L’attuale crisi economica — si dice — è dovuta alla separazione tra capitalismo industriale e quello finanziario; la crisi può essere superata liberando la morale (soprattutto cristiana) o la politica dalla loro soggezione all’economia; può essere superata ritornando a Marx e voltando le spalle all’economia di mercato. Tutte diagnosi (sempre più insistenti, comunque, quelle che, anche senza guardare a Marx, affermano la fine del capitalismo) che non fanno i conti con la sequenza concettuale sopra richiamata, e quindi non possono sapere in che mondo oggi viviamo. Pertanto, chi è estimatore di ciò che serve alla sopravvivenza del capitalismo — o delle altre grandi forze del vecchio mondo — e agisce sulla base di quelle diagnosi è il servitore di un cadavere. Il che non esclude che le sue azioni possano essere utili, e perfino molto utili, a imbalsamare le foglie secche, tenendole attaccate ai rami ancora per un po’, e perfino per un bel po’ — ma in tal modo ritardando la trasformazione a cui il mondo è destinato. L’amatore di «ciò che serve» (ma un abisso si apre sotto i piedi di questa espressione) non deve dunque servire i morti, ma ciò che sta nascendo, ossia quel nuovo, immane e spaesante Leviatano che è l’organizzazione scientifico-tecnologica del mondo e pertanto dell’economia, della politica, della morale. Incommensurabilmente più decisiva di qualsiasi forma di «governo tecnico», questa organizzazione conduce al rovesciamento del mondo: invece di servire le grandi forze sopravvissute che ancora si illudono di padroneggiarla, è essa a servirsi di tali forze per aumentare all’infinito la propria potenza. E se oggi il capitalismo coinvolge sempre di più gli Stati (tradendo la propria vocazione originaria), ciò significa che anche gli Stati stanno diventando, da padroni, servitori dell’apparato scientifico-tecnologico. Durante questo rovesciamento tutto si trasfigura, tutto diventa ambiguo e disorientante, il mondo sembra incomprensibile. È la crisi del vecchio mondo. Bisogna saperla decifrare (e andando molto più al largo, in mare aperto, rispetto alle stesse considerazioni qui richiamate).

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