Il campo, anzi lo stadio del polo da 20mila posti (capiente quasi quanto l’Olimpico di Torino), a Giarre, nel cuore della Sicilia, dove i principi di Galles si vedono solo in sartoria. Un impianto sportivo in grado di contenere tutti gli abitanti, infanti compresi, della cittadina etnea. Prima pietra posata nel 1985, ultima mai. I 29 interminabili chilometri per congiungere Ferrandina a Matera, unico capoluogo italiano non raggiunto dalle ferrovie nazionali. Lavori cominciati nel ‘86, treni non ancora pervenuti dopo 25 anni, ovvero 22 più di quelli necessari a Ferdinando II di Borbone per inaugurare nel 1839 la Napoli-Portici, prima linea ferroviaria italiana.
L’idrovia tra Milano e Cremona (65 chilometri) progettata nel 1911 e presentata come l’idea del secolo, ferma a Pizzighettone un secolo e 13 chilometri dopo. La strada fantasma Fano-Grosseto, sognata da Fanfani: dopo quasi 50 chilometri, con soli sei chilometri realizzati, attende il passaggio della prima auto. E così dighe, alberghi, palasport, ponti, parchi, scuole, anfiteatri, stazioni dei carabinieri… Trecentosessanta opere pubbliche sparse per l’Italia, miliardi su miliardi sprecati, ettari ed ettari di territorio scempiato. Alcune necessarie, altre inutili. Tutte, comunque, incompiute.
Lastroni di cemento marcio, pilastri sospesi nel cielo, distese di erbacce, alveari di calcestruzzo, ponti protesi sul nulla. Le opere pubbliche incompiute emanano una bellezza malinconica e struggente, evocano ciò che avrebbero potuto essere, rammentano sprechi, raccontano una amara storia d’Italia. Come denunciato dalla Corte dei conti, che ne fa derivare responsabilità erariali a carico di politici e dirigenti pubblici, «rappresentano un gravissimo spreco di risorse pubbliche e la testimonianza più eloquente dell’inefficienza dell’amministrazione centrale e periferica». Le cause? Per i magistrati contabili, «carenza di programmazione, eccessiva frammentazione dei centri decisionali, complessità delle procedure amministrative, inadeguatezza della progettazione, dilatazione dei tempi di esecuzione imputabile sia alle amministrazioni committenti che alle imprese esecutrici, carenze e inadeguatezze dei controlli tecnici e amministrativi».
Oltre ad accertare e punire i responsabili dello spreco, resta il problema: che fare delle opere incompiute? Due mesi fa, un gruppo di deputati ha presentato una proposta di legge per favorirne «il recupero e il riutilizzo». Il testo prevede l’istituzione di un’anagrafe nazionale, aumenti di cubature fino al 30% e incentivi economici per coinvolgere i privati, introducendo il divieto per le amministrazioni di progettare nuovi edifici se prima non completano quelli precedenti. Idee alternative nascono da un progetto che ha coinvolto centinaia tra artisti e architetti, raccontato ora in un documentario, «Unfinished Italy» del regista francese Benoit Felici, presentato questa sera a Torino, nell’ambito del Festival Cinemambiente. Il progetto da cui prende spunto il film si chiama «Incompiuto siciliano» e nasce per caso. Nell’estate 2007 un gruppo di amici in vacanza a Giarre si imbatte nel teatro progettato «fuori asse» e perciò rimasto a metà. Lo stupore diventa presto curiosità. I membri del collettivo artistico «Alterazioni video», il ricercatore e artista Enrico Sgarbi e l’avvocato Claudia D’Aita decidono di approfondire. Parte così il progetto di ricerca, per catalogare tutti i casi analoghi.
Ben presto l’idea si allarga. E diventa «Incompiuto italiano». Le segnalazioni fioccano da tutta la penisola. Vengono mappate 360 opere incompiute: in gran parte nel Centro-Sud, un terzo del totale in Sicilia, per lo più risalenti tra la fine degli anni 60 e 80, quelli dell’esplosione della spesa pubblica e preTangentopoli. Si cataloga e si ragiona: l’opera incompiuta, nella chiave di lettura degli artisti, non va trattata come un’eccezione, ma come «il più importante stile architettonico italiano del dopoguerra». Enrico Sgarbi: «Il nostro è un progetto di lettura del paesaggio, per ribaltare la percezione negativa delle opere incompiute, elevandole al rango di opere d’arte per farle diventare risorsa economica con un tipo di turismo responsabile».Il materiale viene raccolto in www.incompiutosiciliano. org, definito un «osservatorio pubblico». E diventa fonte d’ispirazione per opere d’arte e fotografie d’autore (anche Gabriele Basilico partecipa).
Nasce così il festival dell’incompiuto, celebrato non a caso a Giarre: la cittadina siciliana viene eletta «capitale italiana dell’incompiuto» per densità di opere non finite rispetto alla popolazione: otto su 10mila abitanti. Nel corso della manifestazione viene celebrato anche il rito del taglio della colonna dal parco Chico Mendes, una «bambinopoli» mai terminata in totale abbandono. La colonna sarà poi portata nel padiglione italiano della Biennale di architettura di Venezia. E nei mesi successivi tutte le opere saranno esposte alla Columbia University di New York, oltre che in diverse città italiane.
«Unfinished Italy» ripercorre il lavoro degli artisti e documenta vicende che lasciano allibiti, come il dramma dell’architetto che ha progettato una piscina olimpionica sbagliando i calcoli: 49 metri anziché 50. Per questo non è mai stata finita. Racconta la voce narrante del regista: «Incrocio stadi senza spettatori, dighe senz’acqua, ospedali senza pazienti e garage senza uscita consegnati all’eterno incompiuto. Scopro rovine nate rovine e rintraccio memorie di luoghi senza passato né futuro».
Il lavoro non è finito. Bisogna ancora rispondere alla domanda «che fare?». Coinvolgendo studenti universitari di architettura, gli artisti hanno raccolto «progetti visionari» per utilizzare le strutture fatiscenti senza stravolgerle, lasciando intatto l’aspetto ma trovando una nuova funzione. Una logica opposta a quella della proposta parlamentare. Così un ponte lasciato a metà diventa la rampa per uno scivolo gonfiabile per bambini. Tra un mese si svolgerà la seconda edizione del festival a Giarre. L’idea è di istituire un parco archeologico dell’incompiuto, coinvolgendo i giovani siciliani per mettere i ruderi in sicurezza e renderli accessibili. Visitabili per farli rivivere. Anzi, vivere.
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