I migliori dizionari elencano differenze e variazioni di significato della parola, o meglio l’idea del mangiare. Ingerire elementi solidi o semisolidi masticandoli o deglutendoli, consumare un pasto, utilizzare abitualmente come cibo, consumare una vivanda preparata in un certo modo, rosicchiare o rodere (come quando si dice che le tarme hanno mangiato un golf), corrodere (la ruggine ha mangiato l’inferriata), consumare carburante (la Cinquecento mangia poca benzina), dissipare (si è mangiato l’eredità della zia), guadagnare illecitamente (mangiare il denaro pubblico), si usa mangiare anche in riferimento a giochi come la dama o gli scacchi e anche alla conoscenza di qualcosa: non mangiava o non masticava molta matematica.
Se non possiamo ingerire liquidi né cibo, siamo condannati a morire. L’uso continuo e insistente delle metafore alimentari è apparso a molti il segno che quelle metafore – sia che si riferiscano a oggetti del nostro tenero amore sia a oggetti del nostro più implacabile odio – nascondono desideri radicati ed emozioni profonde.
È bene rendersi conto della molteplicità e della varietà di sentimenti che stanno dietro alle espressioni attinte al mangiare: mangiare di baci, mangiare con gli occhi, ti mangerei, ma anche: me lo mangio vivo, mi mangio le mani, te lo cucino io, ha inghiottito un rospo, mastica un po’ di latino, ha mangiato la foglia, ha mangiato veleno, ha sete di sapere, ha fame di cultura, il pane dello spirito, il nutrimento dell’anima, ha divorato quel libro, fa uso di concetti ben digeriti, quel libro contiene descrizioni piccanti, quell’altro è invece del tutto insipido, è pieno di battute acide, fa uso di metafore gustose, gli innamorati si sussurrano paroline dolci, un autore svolge amare considerazioni, quel tizio è uno che se le beve tutte, vorrei sapere qual è il sugo della storia, il suo articolo è una minestra riscaldata, questa non la butto giù, se lo cuoceva a fuoco lento, è caduto dalla padella nella brace, quel tipo è una pappa molle, è una persona disgustosa, se non è zuppa è pan bagnato e ancora: o mangi questa minestra o salti dalla finestra, sta vomitando ingiurie, quello sputa nel piatto dove mangia, quell’articolo è un fritto misto di cose disparate, è tutto fumo e niente arrosto, gli ha reso pan per focaccia, quel ragazzo è buono come il pane, è una pasta di ragazzo, un bocconcino di ragazza, lungo come una giornata senza pane, questa mi è proprio rimasta di traverso, è stato un boccone amaro, è stato un boccone avvelenato, ha bevuto un amaro calice, quella conclusione è proprio una ciliegina sulla torta, gli faccio mangiare la polvere.
Molte di queste metafore e di queste espressioni hanno a che fare non con la piacevolezza di un buon pasto, ma con giudizi di asprezza talora molto notevole. L’idea del mangiare oscilla tra la piacevole ovvietà del quotidiano (che può anche configurarsi come una forma di raffinato o raffinatissimo godimento) e la tragica ossessione che la scarsità o l’assenza di cibo ha provocato e provoca in moltissimi esseri umani. E ce ne sono alcuni che hanno consapevolmente scelto di lasciarsi morire di fame. Entro la nostra grande tradizione di civiltà, di cultura e di arti non è solo presente Dioniso che viene divorato dai Titani, o il quadro di Francisco de Goya Saturno che divora il suo figlio. Il nostro passato è pieno di fiabe popolate di orchi antropofagi che hanno insieme turbato e incantato molti e molti bambini.
La storia o meglio le molte storie che qui cerco di raccontare sono piene di cose piacevoli, ma anche piene di orrori che si configurano, a volte, come inimmaginabili. È un dannato intreccio di cose che non dovrebbero stare insieme, che non vorremmo vedere mescolate e invece sono maledettamente mescolate. Non ci sono solo i volti dei bambini affamati che assomigliano a quelli di strani e tragici vecchietti, ci sono i serial killer che si nutrono dei corpi delle loro vittime, ci sono i digiuni delle sante spinti al parossismo, c’è l’odierna, straordinaria fortuna, presso le giovani generazioni, delle storie di vampiri, ci sono i corpi gonfi di grasso degli obesi e i corpi emaciati e ridotti a scheletri viventi delle ragazze (e delle modelle) anoressiche. Accanto alla filosofia gaudente dello slow food, che detta le regole del bon ton alimentare, si è diffuso, come un’ombra nera, il culto di Ana, questa mostruosa divinità che presenta l’anoressia come l’esito di una scelta eroica e come una superiore forma di vita, e si va affermando il mito di un’alimentazione assolutamente corretta che distingue (in modi esagerati e ossessivi) tra cibi giusti e sani e positivi e cibi pericolosi. (…)
Anche relativamente al cibo e all’alimentazione sono emerse con forza posizioni di tipo primitivistico. Si sente spesso ripetere che un tempo si mangiava «naturale», che per i nostri nonni e bisnonni il cibo era «genuino» e «gustoso». I luoghi comuni dovrebbero crollare di fronte ai dati e alle serie ricerche. Invece resistono impavidamente. A forza di essere ripetuti diventano verità.
Se accanto ai libri di Piero Camporesi, si leggono anche quelli, assai ben documentati, di Paolo Sorcinelli, quei luoghi comuni si sciolgono come neve al sole. Ancora alla fine dell’Ottocento – come Sorcinelli ha mostrato nel libro intitolato Gli italiani e il cibo. Dalla polenta ai cracker – è presente in Italia un cronico e stretto legame tra malattia e sottoalimentazione. Nel nostro passato, l’insufficienza di cibo era la norma e le carestie erano sempre in agguato. Una gelata eccezionale, una forte grandinata, una prolungata siccità bastavano a trasformare quella cronica insufficienza in una vera e propria, drammatica carestia: «Ogni anno era buono per essere definito, tristemente, anno della fame. In quel contesto era naturale che si mangiasse di tutto, anche quello che da mangiare proprio non era». (…)
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