
Gli alberi sono il biglietto per il
nostro futuro come specie, non
possiamo più ignorarlo». Va subito
dritto al punto, il catalano
Josep Selga. Biologo, orticoltore-
paesaggista oltre che esperto
di urban design, è convinto che questa volta
in gioco non ci sia la solita questione – per
quanto necessaria – di mettere un po’ più di
verde nelle nostre città. E non limitandosi “soltanto”
ai suoi mestieri, tiene corsi e conferenze
in Spagna e all’estero per convincere le persone
che è tempo di ripensarle da capo, queste nostre
metropoli.
Selga è una via di mezzo tra un massimo
esperto di verde urbano, un filosofo (anche se
lui non ama considerarsi tale), un’attivista green
e un apprezzato consulente/libero professionista.
D’altronde – come dice lui stesso – l’avvenire
sta nell’integrazione tra le competenze e
nella fine certificata della “compartimentazione”.
Un esempio? A Barcellona collabora con
i creativi di un’azienda di design che ha pensato
bene di trasformarsi anche in “editrice di
alberi” e a una manciata di chilometri dal capoluogo
catalano ha aperto una grande nursery
arboricola sotto la sua supervisione diretta.
Nursery, e non vivaio, perché in ballo c’è una
rivoluzione filosofica-produttiva che potrebbe
essere l’inizio di un nuovo urbanesimo per le
nostre città.
Dottor Selga, lei sostiene che gli alberi sono essenziali
affinché l’umanità abbia ancora una
chance. Non le suona un po’ troppo “forte”?
«Ne sono sempre più convinto. Da tanti anni
abbiamo intessuto con la natura una relazione
di dominio, estromettendola dal contesto umano,
marginalizzandola sul piano urbanistico. Il
risultato? Le città sono invivibili. Ma non solo.
Il danno è anche economico. L’uomo ha biso- gno del fattore naturale, però la società attuale
non lo capisce, si autoinganna vivendo nell’apparenza
e crede che la natura sia solo una realtà
virtuale, un elemento di decoro da piazzare a
casaccio – quando va bene, in città – non capendo
che la posta in gioco è invece altissima».
Davvero?
«Le faccio un esempio: al giorno d’oggi le persone
vivono in gran parte nelle città, giusto? Bene:
i nostri cittadini non vedono l’ora che arrivi
il fine settimana per scappar via in cerca di un
contatto con la natura. Nulla di male in apparenza,
a parte il fatto che questa enorme mobilità
da fine settimana ha un costo economico-
ambientale mostruoso per il pianeta, ormai
insostenibile. Il punto, poi, è anche un altro: anche
se dalla modernità in avanti ha fatto di tutto
per staccarsene, l’uomo, resta profondamente
legato al mondo naturale, relazione dimostrata
da molti studi di sociologia e biologia. Per vivere
bene, l’umanità come specie ha bisogno
di riscoprire la sua appartenenza a questa sfera.
Altrimenti conduce un’esistenza dimezzata,
con ricadute sul piano esistenziale-psichico».
Ci spieghi meglio, per favore.
«Nella società occidentale si corre il rischio che
tutto quello che è natura a portata di mano, e
gli alberi in primis, sia considerato come un elemento
di arredo urbano, un décor per signore
dell’ultima borghesia per intenderci. Io affermo
il contrario, dico che gli alberi sono un
elemento strutturale del mondo antropizzato.
Studiare le culture primitive potrebbe aiutarci
a rendercene conto».
A proposito: lo scorso anno in Italia, a Milano,
ha tenuto banco un progetto di Renzo Piano
che si prefiggeva di riempire il centro cittadino
di decine di migliaia di piante. Un’iniziativa
abbandonata. Ha seguito il caso?
«Non conosco il progetto di Piano, ma la questione
non è così semplice. Ci sono contesti in
cui un albero può anche essere di troppo, e
penso ad alcune piazze storiche italiane, piazza
del Campo a Siena, per esempio, un gioiello
così com’è senza verde. Ripeto, la cosa è complessa,
e non esiste una soluzione universale.
Gli alberi sono importanti certo, ma non sono
l’unica cosa che conta “a prescindere” per le
città. Come spiegava in un suo saggio l’architetto
José Martinez Sarandeses, la questione va inquadrata
concependo le piazze come autentici
spazi pubblici, ovvero luoghi fondamentali in
cui si determina un accrescimento reale, concreto,
per la nostra società in termini di relazioni
umane, integrazione, scambi economici e
altro ancora. Bene, a partire da questo Sarandeses
sosteneva che gli alberi sono gli unici elementi
strutturali che consentono a uno spazio
libero di diventare uno spazio pubblico vero e
proprio, rapidamente e a basso costo».
Detta in altra maniera?
«Le faccio un nuovo esempio: un parcheggio è
un luogo aperto a tutti ma non è ancora uno
spazio pubblico vero e proprio, è solo un posto
dove si lasciano le macchine. Coglie la differenza?
Le piazze sono un luogo di energia, di
ricchezza, portano un enorme valore aggiunto
alle città, e in questo contesto, l’albero è l’elemento
più a buon mercato che aiuta a costruire
uno spazio pubblico eccellente, che possa far
sbocciare le relazioni umane».
Per questo ha detto che piantare alberi è un
fatto “culturale” e non naturale?
«Proprio così. Prima, per introdurre il discorso
ho parlato della differenza tra natura e città, ma
in realtà il “naturale” non esisterebbe nemmeno
di per sé. Schematizzando un po’, nella nostra
società esistono due atteggiamenti diversi:
il primo, neoromantico, è quello di un utopico
e nostalgico ritorno alla natura; il seconatto do, virtuale, coincide con una fuga dalla realtà
verso altri mondi. Né l’uno né l’altro affrontano
la questione nel modo giusto, per questo io
propongo una terza via: cultura e natura devono
tornare a svilupparsi insieme, dialogando
creativamente, cercando nuove soluzioni
senza illudersi con fughe all’indietro o mondi
sostitutivi».
Interessante. Ma un risvolto pratico, alla fine,
ce l’ha?
«Bisogna ricostruire le città dal basso e non
più dall’alto. Per questo ho parlato di società
dell’apparenza, perché per motivi di marketing
politico si dà valore solo a ciò che svetta, a ciò
che appare grande, ma questo, alla fine, senza
neppure sapere ciò che realmente c’è in cima.
Azzardiamo… I tetti?
«Esatto. È stato calcolato che, mettendo insieme
i metri quadri di tutti i tetti europei si ottiene
una cubatura all’incirca due-tre volte più
grande di quella oggi occupata dal verde nelle
nostre città. Capisce? Questo significa che neppure
“in alto” si guarda bene a quello che realmente
abbiamo a disposizione: bisognerebbe
sfruttare i tetti a fini agricoli. Cosa che già accade,
lei mi dirà, ma solo con progetti pilota o di
piccolo giardinaggio urbano. Ecco: non basta».
Figuriamoci quello che accade “in basso”…
«Manco a parlarne. Eppure c’è stato un tempo,
nell’Ottocento, in cui architetti e ingegneri
disegnavano le città partendo dalle strade e
dal sottosuolo. A Parigi, tra l’altro. Oggi le cose
vanno così male che, se un’azienda fa un buco
per posare la fibra ottica lo richiude all’istante,
e magari, quelli del gas, due giorni dopo, lo ri a
prono e così via all’infinito: oltre che pura follia
è un bel danno economico. Manca un progetto,
una regia».
Ma qui gli alberi cosa c’entrano, ci scusi?
«C’entrano eccome: se lei prende una foto aerea
delle città d’inizio secolo si accorge che le
dimensioni degli alberi erano maggiori rispetto
a quelle attuali. E lo sa per quale motivo? Perché
a quel tempo c’era molto più suolo a disposizione,
le radici potevano affondare e l’albero
estendersi in altezza. Oggi non c’è più spazio disponibile,
si fanno dei buchetti e si pianta, così,
quasi a casaccio».
Quindi, che fare? Bisogna distruggere tutto e
ricominciare da capo?
«Impossibile. La tecnologia però ci dà una mano.
C’è un modo che permette a un albero di
crescere anche senza spazio. Sembra strano
ma non lo è affatto. Si tratta di una tecnica (sono
speciali vasi di plastica riciclata e riciclabile
all’infinito che evitano alle radici di arrotolarsi
su se stesse atrofizzandosi, sistema Air Pot,
ndr) che non ho inventato io, ma che stiamo
impiegando con successo a Barcellona grazie a
un’iniziativa frutto della prima collaborazione
tra pubblico e privato – nella fattispecie tra la
città di Barcellona e un’azienda di design catalana,
Santa & Cole – che sta mettendo gli alberi
al centro dei suoi interessi. Rivoluzionando il
processo di produzione siamo in grado di piantare
alberi grandi e vitali senza alcun bisogno di
suolo, di terra, abbreviando il ciclo con conseguenze
importanti anche sui costi».
Ricapitoliamo: una società di design che si
occupa di fare… alberi e un biologo che ne diventa
un collaboratore?
«Giusto. Il futuro sta in un mix di discipline senza
più compartimenti stagni. Io lavoro con architetti
e ingegneri sapendo che contano strategie
di network e professionalità allargate. Ci
sarà bisogno sempre più d’integrazione tra le
competenze e anche di nuove metodologie di
lavoro: i passi avanti avvengono nelle “zone di
frontiera”, che poi sono anche zone di conflitto,
come vediamo ogni giorno. Chiudo con l’ultimo
esempio: con quelli di Santa & Cole stiamo
progettando la “piazza mobile”, con alberi e arredi
urbani che possono essere riconfigurati in
caso di necessità senza grandi esborsi economici.
Intanto, nella nursery del Parc de Belloch
studiamo come reintrodurre specie arboricole
adeguate per vivere bene nel Mediterraneo
e, come ho detto, in condizioni critiche, senza
terra. Per noi è questa la vera evoluzione».