Assediati dalle centrali

LUCA IEZZI   Il “mostro” bavarese è a 250 Km dalle località turistiche delle Dolomiti, da Cortina d’Ampezzo a Bressanone. La stessa distanza di Tokyo da Fukushima. Non è un caso isolato, al di là delle Alpi si estende una corona di 13 centrali con ben 29 reattori tutti all’interno di un raggio di 250 […]

LUCA IEZZI

 

Il “mostro” bavarese è a 250
Km dalle località turistiche
delle Dolomiti, da Cortina
d’Ampezzo a Bressanone.
La stessa distanza di Tokyo
da Fukushima. Non è un caso isolato,
al di là delle Alpi si estende
una corona di 13 centrali con ben
29 reattori tutti all’interno di un
raggio di 250 km dai nostri confini.
Si parte dalla nuclearissima
Francia (6 centrali con 18 reattori)
per chiudere con la Slovenia
(1). In mezzo Svizzera (4 centrali,
5 reattori) e Germania (2 centrali
e 5 reattori). L’età media è di 30
anni. Mentre l’Italia era felice
della sua denuclearizzazione, gli
assedianti sono aumentati e ora
iniziano a mostrare la loro età.
L’incidente giapponese ci ha
ricordato, come accadde con
Cernobyl, che i radionuclidi non
conoscono frontiere, le radiazioni
viaggiano con i venti, la pioggia
li deposita su verdure e foraggio.
Insomma, poco s’interessano
delle scelte energetiche dei singoli
Stati. Per gli italiani a molte illusione:
che il referendum
dell’87 ci abbia messo al riparo
dalle conseguenze di un incidente
nucleare, e che basti ribadire la
scelta a giugno prossimo per abbandonare
ogni ansi. Anzi c’è
una scuola di pensiero che vede
proprio in questi impianti limitrofi
un’occasione per evitare di
costruirne di nuovi sul nostro
territorio senza rinunciare ai
bassi costi dell’elettricità. A Krsko
in Slovenia, a soli 130 km da
Trieste, da anni si tratta per raddoppiare
il reattore esistente con
capitali italiani, la regione Friuli
Venezia Giulia sostiene che sarebbe
un modo per renderla più
sicura, le associazioni ambientaliste
invece contestano i numerosi
malfunzionamenti che colpiscono
la centrale, gli ultimi due
il 26 marzo scorso.
Nemmeno i reattori francesi ci
lasciano tranquilli. Nel 2008 a
Tricastin una grande quantità di
liquido, contenente 78 chili di
uranio finì in un ruscello vicino
inquinando la falda freatica e
bloccando pesca e coltivazioni.
Ora le preoccupazioni si concentrano
su Fessenheim, due reattori
in linea dal ’77, proprio nel cuore
della vecchia Europa, su una
faglia sismica. La città di Strasburgo
ha chiesto di chiuderla
subito, lo ha fatto anche la città di
Basilea. Un incidente di livello 1 il
primo aprile ha portato al blocco
automatico, difficilmente la centrale
sul Reno supererà gli stress
test che l’Europa ha predisposto
sui suoi 143 reattori anche se le
regole sulla sicurezza non sono
uniformi.
Il vero punto dolente è la Svizzera:
se seguisse anche solo i regimi
europei più blandi avrebbe
dovuto spegnere già tre reattori
su cinque. La centrale di Mühleberg,
nel cantone di Berna, ad un
centinaio di Km dal confine con il
Piemonte, è in funzione dal ‘72,
dovrebbe essere chiusa definitivamente
alla fine dell’anno prossimo.
Seguendo l’esempio di
Germania e Spagna anche nella
Confederazione si puntava ad un
allungamento, ora la questione
sarà risolta con un referendum
nel 2013. La spinta a mantenere
le centrali in funzione è per lo più
economica: sono impianti già
ammortizzati e che producono
elettricità a prezzi bassissimi.
Fukushima ha chiarito come si
tratti di una scorciatoia ricca
d’incognite: i sistemi di sicurezza
concepiti più di 40 anni sono
sempre meno all’altezza degli
standard odierni. Si parla di
eventi naturali ma anche di minacce
terroristiche e di una densità
abitativa che è aumentata
esponenzialmente negli ultimi
decenni. I piani di evacuazione
ora interesserebbero centinaia
di migliaia di persone. Inoltre per
quanto la manutenzione possa
fare miracoli, una centrale può
subire solo modifiche parziali
mentre la struttura subisce il peso
degli anni. È un argomento
spesso usato dai nuclearisti per
dimostrare la sicurezza degli impianti:
le centrali ai nostri confini
hanno accumulato 869 anni di
funzionamento senza grandi
guasti, ma la considerazione può
essere ribaltata. Dopo quanti anni
le stesse strutture devono essere
rimpiazzate per evitare rischi
eccessivi? Una domanda
scomoda specie se tutti decidono
di far funzionare i propri impianti
più del previsto.
È un dilemma politico che nessuno
sembra in grado di sciogliere
in maniere coerente: la Francia
usa gli eventi di Fukushima
per ribadire che le centrali più
vecchie vanno sostituite al più
presto con nuove di terza generazione
(di cui sono i maggiori costruttori),
ma gli Epr transalpini
costano tantissimo (5-7 miliardi
l’una) a cui bisogna aggiungere le
risorse necessarie per smantellare
l’esistente, cifre che secondo il
ministro Giulio Tremonti stanno
facendo maturare sui bilanci
pubblici europei una cambiale
da centinaia di miliardi.
La Germania con l’incidente
giapponese ha colto l’occasione
di accelerare sul suo addio all’atomo,
ma ogni sostituto ha delle
controindicazioni. La scelta più
sicura e immediata è passare alle
centrali a gas (lo farà anche il
Giappone), ma significa condannarsi
alle dipendenza da Russia e
Nordafrica. Usare, dove sarà
possibile, le rinnovabili per sostituire
il nucleare segnerà una battuta
di arresto ai programmi di riduzione
dei gas serra nell’atmosfera
per combattere il cambiamento
climatico: entrambe le
fonti hanno emissioni quasi nulle
e quindi in termini di CO2 prodotta
sono equivalenti.
 
 
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