l microcredito ha un impatto
decisivo sulla qualità della vita
di una comunità? L’aumento
della scolarizzazione è automaticamente
sinonimo di nuove generazioni
più istruite? L’imposizione di
quote rosa a livello di governance
locale sortisce effetti duraturi? Non
lo sappiamo. O meglio: a queste
domande, fino ad oggi, non si è risposto
in modo scientifico, sulla
base di dati oggettivi e comparabili.
Ecco perché, nonostante gli ingenti
investimenti profusi in questi
decenni nella lotta alla povertà, alcuni
dei più importanti obiettivi
del millennio appaiono ancora pura
utopia. «Nel XX secolo la "sperimentazione
clinica" ha rivoluzionato
la pratica medica. Sfortunatamente,
lo stesso non è avvenuto
con le politiche di aiuto ai poveri».
È la tesi di Esther Duflo, enfant prodige
dell’economia – a 29 anni ottenne
una cattedra al prestigioso
Mit di Boston – e vincitrice l’anno
scorso della «John Bates Clark Medal
», sorta di Nobel assegnato al
miglior economista under 40.
Francese, oggi trentottenne, Duflo
è la co-fondatrice dell’Abdul Latif
Jameel Poverty Action Lab, un centro
di ricerca e azione che pone alla
base della lotta alla povertà l’uso di
«studi controllati randomizzati»,
ossia valutazioni dell’efficacia di
singoli progetti di intervento attraverso
sperimentazioni scientifiche.
Se è vero, infatti, che economisti di
ogni orientamento concordano ormai
tutti, in teoria, sulla centralità
dello sviluppo umano – quello che
ha tra gli indicatori chiave istruzione
e sanità – «ciò che continua a
mancare, a livello di cooperazione
e più in generale di elaborazione
delle politiche di sviluppo, è un approccio
razionale». Dati, test, sperimentazioni
rigorose sono i grandi
protagonisti di I numeri per agire.
Una nuova strategia per sconfiggere
la povertà (pp. 172, euro 18, traduzione
di Massimiliano Guareschi),
in uscita per Feltrinelli. Un libro in
cui Duflo dimostra la debolezza
delle tesi di chi sostiene che, visti i
fallimenti degli aiuti internazionali,
i Paesi ricchi dovrebbero fare un
passo indietro e lasciare che i poveri
si occupino di se stessi. Una
posizione che la brillante economista
giudica «ingenua e pericolosa
». Quando le chiediamo, allora,
quale sia la chiave per il successo
delle politiche di sviluppo, risponde
con semplicità: «Potrà sembrare
ovvio, ma prima di cercare una soluzione
è necessario comprendere
esattamente qual è il problema.
Troppo spesso ci innamoriamo di
una particolare tecnologia, ad esempio
i palmari per le scuole, e
dimentichiamo quale è in realtà la
carenza che dovremmo affrontare.
Inoltre, dovremmo spendere più
tempo per capire perché tale carenza
è presente: perché la gente –
i poveri, gli insegnanti, i politici… –
si comportano in un certo modo?
Quali sono i motivi razionali dietro
alle loro azioni? E c’è qualcosa che
potrebbe spingerli verso comportamenti
più desiderabili?». Se si capisse,
ad esempio, perché in certi
contesti africani le zanzariere distribuite
gratuitamente vengono utilizzate
come reti da pesca, si potrebbe
immaginare a quali condizioni
gli interventi di prevenzione
alla malaria potrebbero invece avere
successo. «È poi fondamentale
valutare l’impatto di un singolo
progetto prima di applicarlo su larga
scala. Altrimenti, il rischio è
sprecare denaro ed energie». Quello
di Duflo è un approccio che sfata
molti stereotipi – ad esempio che
l’incentivo migliore per convincere
i poveri a mandare a scuola i loro
figli sia quello economico – e che si
configura come «anti-ideologico»
per definizione. «Oggi moltissimi
sforzi per lo sviluppo sono vanificati
da quelle che Abhijit Banerjee
e io abbiamo chiamato "le tre i": ideologia,
ignoranza e inerzia. Programmi
concepiti secondo una
particolare ideologia e nell’ignoranza
di ciò di cui i poveri hanno
davvero bisogno persistono, soprattutto
a causa dell’inerzia. È il
motivo per cui in tutta l’India esistono
"comitati educativi di villaggio",
ma la maggior parte dei genitori
e persino alcuni membri non
ne hanno coscienza. La buona notizia
è che spesso è possibile migliorare
questi programmi correggendoli
con una dose di realismo:
per esempio, i genitori possono
convincersi a investire nella formazione
dei figli quando si mostra loro
con chiarezza ciò che i ragazzi
imparano o non imparano a scuola.
Una volta consapevoli, essi sono
in grado di prendersi maggiori responsabilità
». L’attuale dibattito
sulla cooperazione allo sviluppo è
incagliato su alcuni estremi: dalla
teoria della «carità che uccide»,
portata avanti dall’economista
zambiana Dambisa Moyo, alle rivendicazioni
di chi dice che i Paesi
ricchi investono poco nello sviluppo.
Per Duflo, il rischio è di lasciarsi
fuorviare dalla sostanza del problema:
«Oggi siamo intrappolati nell’alternativa:
gli aiuti allo sviluppo
sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno,
oppure non lo sono per nulla.
La verità, ovviamente, è che nessuna
di queste posizioni è corretta.
Parte degli aiuti è sprecata, esattamente
come parte dei fondi locali,
di solito perché non spendiamo
abbastanza tempo cercando di capire
cosa funziona e cosa no.
Quando sono usati bene, invece,
gli aiuti internazionali possono avere
un impatto enorme: pensiamo
alla rivoluzione verde in India o
al crollo della mortalità nel mondo.
Ciò su cui dovremmo focalizzare
l’attenzione è come spendere il denaro,
che si tratti d’aiuti o di tasse,
in modo più efficace»