Acqua, aria e suolo meno inquinati L’industria pulita non è più un sogno

STEFANIA MARTANI   Dal 1995 (anno del passaggio al gruppo Riva), nello stabilimento Ilva di Taranto sono stati investiti 4 miliardi. Il 25% sono andati a interventi ambientali: riduzione delle emissioni nell’atmosfera, riduzione delle emissioni solide (residui, sottoprodotti e rifiuti), abbattimento del carico inquinante nelle acque di scarico, rimozione e smaltimento di tutti i trasformatori […]

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STEFANIA MARTANI

 

Dal 1995 (anno del passaggio al gruppo Riva), nello stabilimento Ilva di Taranto sono stati investiti 4 miliardi. Il 25% sono andati a interventi ambientali: riduzione delle emissioni nell’atmosfera, riduzione delle emissioni solide (residui, sottoprodotti e rifiuti), abbattimento del carico inquinante nelle acque di scarico, rimozione e smaltimento di tutti i trasformatori contenenti Pcb installati, rimozione e lo smaltimento dell’amianto.
La costruzione del nuovo terzo forno di produzione del vetro nello stabilimento di S.Polo (Treviso) della OwensIllinois (multinazionale Usa da 6,6 miliardi di dollari di fatturato 2010 e 24.000 dipendenti in 80 stabilimenti in 21 paesi) è costata 15 milioni di euro: la maggior parte dell’investimento è stata dedicata alla riduzione del consumo di acqua in una quantità stimata in 30 milioni di litri all’anno, al minor carico energetico, alla valorizzazione dei filtri per trattenere le emissioni, all’utilizzo (arrivato all’85%) di rottame di vetro, più ambientalmente compatibile perché fonde a temperature più basse. «Vogliamo ridurre il consumo globale di energia del 50% e ridurre del 65% le emissioni di anidride carbonica entro cinque anni», conferma Vitaliano Torno, vice president sales di OI Europe.
Due esempi di "economia green" da due grandi imprese in settori tradizionalmente fra i più inquinanti. Non sono gli unici: altri comparti a lungo accusati di essere devastanti per l’ambiente, dalle concerie alle cartiere per non parlare dell’industria chimica, hanno realizzato investimenti macroscopici in senso ecologico, e i risultati si vedono. Non è solo la grande industria a muoversi: come mostra l’Ige (Indice di green economy) stilato dalla Fondazione Impresa la settimana scorsa, nel nostro paese il 33% delle piccole imprese negli ultimi due anni ha introdotto o utilizzato tecnologie o sistemi finalizzati alla riduzione dell’impatto ambientale: acquisto di macchinari a basso consumo (27,3%), riduzione degli imballaggi/uso di materiali riciclati (25,8%), installazione di pannelli fotovoltaici (19,2%). Non è finita: gli investimenti di riqualificazione energetica degli edifici hanno interessato il 18,7% delle piccole imprese e l’introduzione di sistemi di gestione ambientale il 16,7%.
Non sono stati solo investimenti per adeguarsi ai tanti provvedimenti legislativi (come la legge antidiossina della Regione Puglia che ha spinto l’Ilva a parte degli investimenti) ma anche una sopravvenuta coscienza ecologica. E poi le industrie ecologiche rendono: le "ecoaziende", intese come tutte quelle in cui decisi interventi ambientali hanno portato a visibili risultati in termini di minor impatto, fatturano in Europa 319 miliardi di euro (2,5% della produzione complessiva): un incremento annuo dell’8% che rende questo settore uno dei più dinamici del continente secondo la Bilbao Declaration del 2010. È sulla base di questi dati che la Commissione Europea, nell’ambito di "Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva" si è impegnata a pubblicare entro il 2011 il Piano d’azione per l’ecoinnovazione. Una ricerca di cui si sta tendendo conto sostiene che se si dedicasse il 3% del Pil dell’Ue alla Ricerca & Sviluppo entro il 2020, si potrebbero creare 3,7 milioni di posti di lavoro e conseguire nel 2025 un incremento annuo del Pil vicino agli 800 miliardi di euro (P. Zagamé 2010 The Cost of a noninnovative Europe).
Del resto, nella sola Italia, dove nel 2010 la bolletta energetica è stata pari a 52 miliardi (fonte Unione Petrolifera), il potenziale di recupero energetico attraverso interventi di efficienza può arrivare al 4550% nel settore residenziale, 16% in quello industriale, 25% nei trasporti. Un potenziale nell’ordine di diversi miliardi di euro l’anno, con un risparmio integrale di energia fossile di oltre 86 Mtep nel periodo 20102020, una conseguente riduzione di emissioni di CO2 pari ad oltre 207,6 milioni di tonnellate, e un risparmio economico per il costo evitato della CO2 di 5,2 miliardi (se si stima il costo della CO2 al 2020 pari a 25 euro/t come da "Task Force Efficienza Energetica Comitato Tecnico Energia e Mercato" di Confindustria, 2010).
Come si diceva, gli investimenti ecologici sono stati particolarmente massicci nei settori più a rischio. La belga Solvay per esempio (gruppo internazionale della chimica da 8,5 miliardi di euro di fatturato nel 2009 e 7,1 nel 2010 dopo la cessione del settore farmaceutico all’americana Abbot), grazie anche all’impegno del centro di ricerca di Rosignano in Toscana, ha investito 60 milioni di euro in una serie di interventi di ammodernamento sullo stabilimento denominati "Progetto Leonardo". Il problema principale cui far fronte era quello dell’inquinamento da mercurio generato dagli impianti clorosoda. Gli impianti producono soda caustica liquida, cloro ed idrogeno gassosi, impiegati per la fabbricazione dell’acqua ossigenata, del polietilene e dell’acido cloridrico, oltre ad altri prodotti clorati utilizzati nella detergenza domestica, nell’industria tessile, nella sintesi farmaceutica, nell’alimentare, nelle cartiere. La Solvay di Rosignano è stata una delle prime a convertire l’impianto per la produzione di cloro soda a celle di mercurio (altamente inquinante) con uno a membrana. Oltre all’eliminazione del mercurio, c’è un risparmio di energia elettrica del 18% sul precedente impianto e di 400mila metri cubi di acqua all’anno. Nell’R&S la Solvay (dieci stabilimenti in Italia e un fatturato 2010 di 967 milioni nel nostro paese) investe 500 milioni di euro l’anno. Tra gli altri impianti ad aver adottato la tecnologia a membrana, quello Assemini (Ca) della Ineos ex Syndial, e l’Altair Chimica di Volterra (Pi).
Altra azienda che ha fatto delle virtù verdi un segno di eccellenza è la Heineken che con il piano globale di sostenibilità Brewing a Better Future ha l’ambizioso obiettivo di diventare entro il 2020 il produttore di birra più "green" al mondo con la riduzione del 40% delle emissioni di CO2 e del 25% il consumo di acqua. Per ora, nell’ultimo anno in Italia (dove è presente da 35 anni, ha un fatturato di 16,3 miliardi di euro, 2000 dipendenti in 4 birrifici e una quota di mercato del 31%) è riuscita a ridurre i consumi di energia termica in produzione da 158 MJ/hl a 155,5 MJ/hl. Altro settore a rischio: la Cartiere del Garda ha attivato un nuovo depuratore di tipo biologico, denominato Biofor e brevettato dalla società francese Degremont, uno dei leader mondiale nel settore. E che dire del gruppo Marazzi? Lo stabilimento di Sassuolo, nell’ottica del risparmio energetico e della minore dispersione di risorse e rispetto per l’ambiente, è dotato di un impianto di cogenerazione, che consente di autoprodurre il 75% dell’energia elettrica e di alimentare la fase di preparazione delle materie prime, e di sistemi di recupero calore di ultima generazione che permettono di utilizzare l’aria calda prodotta dai forni, altrimenti dispersa in atmosfera, per alimentare essiccatoi e bruciatori. Il gruppo ha investito per l’opera 35 milioni nell’ambito di un piano di investimenti da oltre 90 milioni che sta completando nel distretto ceramico.

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