L’acqua che consuma la nostra spesa

Quanta acqua serve ai pomodori per diventare il sugo della nostra pastasciutta? O meglio, quanta acqua è necessaria ai pomodori per crescere, maturare ed essere ridotti in un concentrato, in una passata o in un barattolo di pelati? Se lo è chiesto l’azienda Mutti, che per prima nel nostro Paese è entrata a far parte […]

Quanta acqua serve ai pomodori per diventare il sugo della nostra pastasciutta? O meglio, quanta acqua è necessaria ai pomodori per crescere, maturare ed essere ridotti in un concentrato, in una passata o in un barattolo di pelati? Se lo è chiesto l’azienda Mutti, che per prima nel nostro Paese è entrata a far parte di un progetto volto a quantificare i consumi idrici della sua intera filiera produttiva. Insieme al Wwf e al dipartimento di ecologia forestale della facoltà di agraria dell’Università della Tuscia (Vt) ha intrapreso un cammino di sostenibilità che, avvalendosi di misure specifiche e ripetute negli anni, si prefigge di ridurre al minimo l’impatto dei pomodori che dai campi approdano alla nostra tavola. E ci sta riuscendo. «Se fino al 1995 nella nostra azienda si utilizzavano 11,5 litri di acqua per trasformare un chilo di pomodori, nel 2010 se ne impiegano 4,3 mettendo a segno una riduzione del 60 per cento», spiega Francesco Mutti, amministratore delegato della società. «Questo traguardo è stato raggiunto non solo con la volontà di fare attenzione agli sprechi, ma investendo 1,5 milioni di euro nell’arco di cinque anni in depuratori e riutilizzando l’acqua. Per esempio si impiega acqua usata già tre volte per scaricare i pomodori dai camion, un’acqua usata già due volte per farli restare in stazionamento e un’acqua mai usata per lavarli».

L’IMPRONTA IDRICA – Esiste pertanto un’acqua «nascosta» che non vediamo con i nostri occhi ma che è stato necessario usare per produrre il cibo che ogni giorno mettiamo nel piatto. È la cosiddetta impronta idrica, cioè una misura dell’acqua virtuale impiegata. Per ottenere un chilo di pomodori freschi ci vogliono per esempio 156 litri, se si tiene conto dell’acqua piovana (acqua green) che cade sul terreno pari a 23,60 litri per chilo di prodotto, dell’acqua emunta per irrigare (acqua blu) pari a 55,01 litri/chilo, e dell’acqua utilizzata per diluire l’acqua contaminata e riportarla alla purezza originale (acqua grey). Seguendo lo stesso ragionamento, si può sostenere che per produrre un uovo occorrono 200 litri d’acqua, per un chilo di patate 900 litri, per un chilo di riso 3.400 litri e per un hamburger da 150 grammi ben 2.400 litri. Sorprenderà pertanto sapere che il 90% dell’acqua utilizzata nel mondo se ne va negli alimenti che mangiamo, nell’energia che usiamo, nei beni che compriamo e nei servizi che richiediamo, e solo una minima parte, pari al 5 per cento, scorre nei lavandini, nelle toilette e nei giardini di casa.

UN CONCETTO ESTESO – L’impronta idrica è pertanto un indicatore dell’uso dell’acqua che non coincide gioco forza con il consumo. Esiste infatti anche una water footprint dell’individuo, della comunità, di un’azienda: è il volume di acqua dolce usata per produrre beni e servizi consumati da individuo, comunità o impresa. Si può pertanto risalire all’impronta idrica anche di intere nazioni. Quella della Cina è di 700 metri cubi pro capite all’anno, quella del Giappone di 1.150 e quella degli Stati Uniti di 2.500.

CALCOLARE L’ACQUA «NASCOSTA» – Ma come possiamo ridurre nella nostra nostra vita quotidiana l’impronta idrica di un prodotto? Per quanto riguarda i cibi possiamo avere due scelte. Cambiare le nostre abitudini sostituendo gli alimenti per cui è necessario usare molta acqua per produrli (bere per esempio tè invece di caffè, mangiare più vegetali che carne) oppure optare per cibi che hanno un minor impatto ambientale (per esempio per un tipo di cotone, carne o caffè con un’impronta idrica più bassa perché prodotti in zone dove l’acqua non scarseggia). Al momento non ci sono però etichette alimentari che riportano il water footprint. Conviene calcolarlo personalmente ricorrendo ai numerosi siti sull’argomento, quali per esempio Waterfootprint.org oppure Nationalgeographic.net. Cliccando inoltre su quello del Wwf si entra in un supermercato virtuale che permette di misurare quanta acqua e CO2 «mettiamo nel piatto» con le nostre scelte alimentari: uno scontrino, anch’esso virtuale, permetterà di dare un numero all’impronta idrica e di carbonio dei nostri acquisti insieme a consigli per ridurre l’impatto ambientale. Tra l’altro il water footprint è già diventato un’applicazione per iPhone: sul sito Waterprint.net si può scaricare un software per calcolare quanta acqua si usa durante le attività quotidiane, per lavarsi i denti per esempio, per produrre una maglietta o per far crescere una banana.

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