Il nuovo galateo: alzate quei pollici dal telefonino

Gianluigi Paracchini Il segnale, perfino a un appuntamento ricco di atmosfera e aspettative, si specchia nello sguardo. È quando gli occhi di lui o di lei (a piacere) sembrano prima perdersi nell’ombra per poi scivolare in basso verso mani che si muovono nervosamente. Un gesto pudico? La premessa d’una confessione scomoda? No, soltanto l’ennesimo messaggio […]

Gianluigi Paracchini

Il segnale, perfino a un appuntamento ricco di atmosfera e aspettative, si specchia nello sguardo. È quando gli occhi di lui o di lei (a piacere) sembrano prima perdersi nell’ombra per poi scivolare in basso verso mani che si muovono nervosamente. Un gesto pudico? La premessa d’una confessione scomoda? No, soltanto l’ennesimo messaggio della giornata, digitato da polpastrelli ormai roventi. Perché lo charme va bene, ma allo smartphone non si comanda.
Ormai non c’è orario, situazione, confine che, salvo poche eccezioni, possa considerarsi zona franca. In società non si sta più a mani vuote: a un certo punto anche nei momenti più privati compare quell’aggeggio metallico, sottile, luminoso e multifunzionale che ha cambiato il nostro stile di vita e semplificato la comunicazione. Ma che ha pure spersonalizzato i rapporti e soprattutto generato una nuova, inebriante maleducazione. Parliamo regolarmente con figli, fidanzate, amici, colleghi, cui mentre cerchiamo anacronisticamente di trasmettere a parole (e magari con qualche gesto) l’entusiasmo per una vacanza, un film, un gol da cineteca, al massimo annuiscono con illuminato distacco senza però smettere di ticchettare il loro telefonino computerizzato.

Il nostro sconforto comincia proprio dalla convinzione che se gli raccontassimo le stesse cose, ma attraverso l’invasiva tecnologia, ci riserverebbero un altro tipo di attenzione oltre a risposte esplicite in quanto scritte. Anche il New York Times ha osservato come questa tecno-maleducazione a portata di polpastrelli si sia ormai radicata diventando stile di vita consolidato e condiviso. A un recente convegno di varia sociologia, quindi con platea presumibilmente intellettuale, qualcuno ha puntato il dito (libero per l’occasione da smart-contatti) contro gli evidenti eccessi e il pericolo d’una disumanizzazione nei rapporti interpersonali. Risultato, le molte mani che hanno applaudito freneticamente, pochi secondi dopo stringevano in modo compulsivo varie tipologie di tablet e smartphone attraverso i quali inviare sms o email magari a colleghi seduti una fila avanti.
Il fatto che non ci sia cena o qualsiasi tipo di appuntamento sociale o professionale dove le parole siano circondate da un dilagare di smanettamenti forsennati su Facebook, Twitter, Skype, eBay e varia antologia di applicazioni, conferma un fenomeno di suprema contemporaneità e di splendido glamour. Ma c’entra pure la comodità. Avere qualcosa in mano su cui concentrarsi è una straordinaria chance non soltanto per vincere imbarazzi classici tipo in ascensore o in treno anche se ormai nessuno si sogna più d’attaccare discorso su ritardi, destinazioni, meteo o tantomeno raccontare barzellette. In qualsiasi situazione mortalmente noiosa e ansiogena un display può servire da prezioso tonico: chi anche a tavola lo azzarda per primo semina presto proselitismo.

C’è poi una ragione di fondo sulla continua espansione di questo popolo digitante, soprattutto fra i giovani: comunicare con qualche pensierino scritto evita faticosi confronti e conversazioni dal vivo, densi di trabocchetti per chi ama nascondere le proprie insicurezze. In ogni caso proprio a New York alcuni integralisti digitanti (forse sottoposti a parziale disintossicazione) trovano molto chic, nelle case dove sono invitati, spegnere platealmente il loro smartphone. Quasi come dire: «È stata dura, ma almeno un po’, ne stiamo uscendo».

 

 

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