Perché bisogna mettere in regola i rider

Non sappiamo con precisione neanche quanti sono. Ma non facciamo altro che avere notizie della scarsa sicurezza e delle condizioni assurde nelle quali lavorano

VITA DA RIDER

Non sappiamo con precisione neanche quanti sono: 30 mila, 50 mila, 60 mila. Le cifre cambiano sulla base delle fonti, e tra le più attendibili c’è una statistica che risale al 2021 realizzata dal Censis per conto di Coldiretti che arriva appunto a calcolare, in modo attendibile, in circa 60 mila unità l’organico complessivo dei rider in attività in Italia. Giovani e giovanissimi  che effettuano consegne a domicilio, solitamente per conto di piattaforme digitali (come Glovo, Deliveroo, Uber Eats, Just Eat, etc.), utilizzando bici, scooter o altri mezzi.

Un lavoro, anzi: un “lavoretto”,  poco visibile e oscuro in termini contrattuali (vi potreste mai immaginare di non sapere, in modo statisticamente certo, quanti sono gli operai che lavorano in una fabbrica in Italia?), quasi sempre sottopagato (tra i 6 e i 10 euro lordi a consegna), svolto in condizioni precarie e di scarsissima sicurezza, innanzitutto nelle grandi città, dove questo servizio è più diffuso, e i rider devono consegnare cibo o altro a che con la pioggia battente, in piena notte, oppure con temperature tropicali.

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Foto di Altamart via Pexels

Le cronache riferiscono spesso di rider travolti da auto pirata, o anche costretti a lavorare ed a circolare in qualsiasi condizione, anche quando ci sono piogge torrenziali o le temperature superano i 40 gradi. Tutto in una perenne sequenza di accordi da “lavoretti a cottimo”, con i rider reclutati  dalle società che rappresentano le grandi piattaforme delle consegne a domicilio in modo diretto o attraverso intermediari, ma sempre con stipendi da fame.

Non è facile regolarizzare l’universo dei rider: la sensazione è che l’intero sistema, con i relativi incrementi di valore per miliardi di euro delle società che li utilizzano per le consegne, possa reggere in utile soltanto se sfrutta, in vari modi, la manodopera presente e disponibile del mercato.

Eppure regolarizzare i rider non è soltanto una scelta di giustizia sociale, di equità, per promuovere un lavoro davvero sostenibile, anche rispetto ad altre categorie. E per impedire che le opportunità offerte dalla tecnologia portino finalmente un benessere più diffuso, anche verso chi lavora in queste imprese divenute nello spazio di un mattino aziende con valutazioni miliardarie. I rider vanno assunti anche nell’interesse delle stesse società del settore: significa normalizzare la loro attività, renderla più competitiva (non attraverso l’uso distorto della variabile del costo del lavoro) con un allineamento del quadro dei diritti e dei doveri dei lavoratori.

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Foto di Kate Trifo via Pexels

L’assunzione prevede contratti di lavoro che definiscono diritti e doveri, garantendo ferie, malattia, maternità e altre tutele previste dalla legge. Inoltre i rider assunti possono avere accesso a servizi come la formazione professionale, l’assistenza sanitaria e altri benefit offerti dalle aziende. Quanto agli interessi delle aziende, al netto dei costi che comporta la normalizzazione dei rapporti di  lavoro dei rider,  un lavoro stabile e svolto in condizioni di sicurezza comporta una migliore produttività dei “fattorini del cibo a domicilio” e anche un miglioramento dell’immagine e della reputazione delle società che li utilizzano.

In un mercato, quello della consegna dei cibi a domicilio (food delivery) che in Italia vale attualmente un fatturato di circa 1,8 miliardi di euro all’anno, e coinvolge il 71 % della popolazione nazionale. Le piattaforme digitali di food delivery — come appunto Just Eat, Glovo e Deliveroo — rappresentano in media ben il 97 per cento del valore totale delle consegne;  mentre solo il 3 per cento è generato dai canali online dei singoli ristoranti.

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