Clima: i piccoli passi dell’Occidente e la lunga marcia della Cina

                NEW YORK –   Massimo Gaggi Incredibile ma vero: il dodicesimo, burocratico piano quinquennale appena varato dalla Repubblica popolare cinese, ultimo di una serie basata sul modello sovietico e inaugurata da Mao Tse-tung nel 1953, è al momento, con la sua straordinaria spinta a investire nelle energie rinnovabili, […]

 

 

 

 

 

 

 

 

NEW YORK –   Massimo Gaggi

Incredibile ma vero: il dodicesimo, burocratico piano quinquennale appena varato dalla Repubblica popolare cinese, ultimo di una serie basata sul modello sovietico e inaugurata da Mao Tse-tung nel 1953, è al momento, con la sua straordinaria spinta a investire nelle energie rinnovabili, l’unico debole raggio di luce nel plumbeo panorama della lotta contro i mutamenti climatici.

La macchina della concertazione multilaterale, infatti, continua a girare a vuoto. Eppure, dopo la flessione delle emissioni di CO2 registrata nel 2009 per la recessione mondiale che aveva fatto rilassare un po’ tutti, l’anno scorso c’è stata una nuova impennata della produzione di gas-serra: 30,6 miliardi di tonnellate di gas disperse nell’atmosfera, il 5% in più rispetto all’anno record 2008. Spinta dal tumultuoso sviluppo delle economie dei Paesi emergenti, la produzione di CO2 quest’anno potrebbe sfondare il tetto dei 32 miliardi di tonnellate: il livello previsto dalla Iea, l’Agenzia internazionale per l’Energia, per il 2020. Lunedì a Bonn inizia la conferenza preparatoria del summit ambientale dell’Onu che quest’anno si terrà a fine novembre a Durban, in Sudafrica. Ma le prospettive, nonostante questa nuova accelerazione, sono tutt’altro che incoraggianti. Nei giorni scorsi i Paesi emergenti del cosiddetto Basic – un’alleanza alla quale aderiscono Brasile, Cina, India e Sudafrica – hanno proposto di rinnovare il protocollo di Kyoto alla sua scadenza, nel 2012. Ma Giappone, Russia e Canada hanno già replicato con un «no» secco al G8 riunitosi la scorsa settimana a Deauville.

Per Fetih Birol, capo degli economisti della Iea, tra stagnazione in Occidente, crisi di bilancio degli Stati e nuove tensioni in Medio Oriente, i governi hanno perso interesse per le minacce all’ambiente. I cambiamenti climatici non interessano più come due anni fa quando, pure, la conferenza di Copenaghen attirò un’attenzione sproporzionata rispetto ai magri risultati raccolti. Allora il protagonista fu un Obama insediato da pochi mesi, col fascino intatto delle sue promesse di cambiamento. L’Obama di oggi è un presidente che non ha trovato in Congresso, nemmeno tra i democratici, i consensi necessari per far avanzare la sua agenda ambientalista e che ora è tenuto sotto scacco dalla nuova maggioranza repubblicana alla Camera che sta cercando perfino di sottrarre all’Epa, l’Agenzia per la protezione ambientale, i suoi poteri regolatori. Forse il presidente tornerà a proporre misure contro i gas-serra, ma non prima della sua rielezione a fine 2012 e solo se potrà contare su una maggioranza al Congresso su questo.

In teoria quello che avviene in campo ambientale in Europa e Nord America dovrebbe risultare sempre meno rilevante per gli equilibri globali visto che nell’inquinamento sono i Paesi emergenti quelli che pesano di più: l’Occidente (i 34 Paesi dell’Ocse) incide ancora per il 40% sulle emissioni, ma solo per un quarto sulla loro crescita. Il resto dell’incremento, il 75%, viene dai Paesi di nuova industrializzazione. Del resto è il peso crescente dei nuovi giganti economici e demografici – Cina e India – e la loro scarsa disponibilità a partecipare agli sforzi internazionali anti CO2 che sono stati fin qui usati dall’America come alibi per ignorare i «comandamenti» di Kyoto. Usa e Ue, si ragionava, ormai crescono assai poco e sono comunque impegnati nello sviluppo di fonti energetiche alternative e a basso impatto ambientale: il problema non viene da loro, ma dalla moltiplicazione delle centrali a carbone cinesi.

Ragionamento comprensibile dal punto di vista occidentale (gli asiatici lo contestano sostenendo che hanno consumi energetici pro-capite assai inferiori a quelli del mondo industrializzato), ma le cui fondamenta si sono in parte sbriciolate nell’ultimo anno: effetto dell’impennata del greggio e dell’emergenza nucleare a Fukushima. Dopo l’incidente in Giappone la spinta per il «nucleare pulito» è svanita quasi ovunque. La Germania ha addirittura deciso di smantellare entro dieci anni le centrali oggi attive. E siccome le energie alternative non potranno crescere fino a rimpiazzarle, il timore degli ambientalisti è che l’atomo venga sostituito dal carbone.
Anche in Italia, indipendentemente dall’esito del referendum, la porta sembra essersi chiusa.

Negli Stati Uniti il dibattito è ancora in piedi ma qui, più che agli investimenti nel nucleare (che spaventano soprattutto per l’entità e i lunghissimi tempi di realizzazione) si pensa ad aumentare la produzione domestica di idrocarburi sfruttando le enormi riserve di «shale gas». I canadesi, a loro volta, lavorano alacremente sulle distese di sabbie bituminose. Sabbie, carbone, «shale gas»: buone notizie per l’indipendenza energetica dei Paesi che li producono e per un rilancio economico basato sulla disponibilità di combustibili a buon mercato, ma non per l’ambiente.

Nella perdurante «impasse» dell’Occidente e delle conferenze internazionali, l’unica vera novità è quella che viene dal piano quinquennale cinese: Pechino non accetta vincoli internazionali, ma decide unilateralmente un massiccio programma di investimenti nelle energie alternative. Se altrove gli impegni spesso restano sulla carta, nella Cina della «dittatura degli ingegneri» le parole diventano rapidamente fatti. Ma l’iniziativa di Pechino può cambiare lo stesso dna della battaglia per l’ambiente: da sforzo multilaterale per la difesa di un patrimonio comune a sfida industriale e commerciale. Trasformando la sua industria dell’energia, la Cina cerca sì di migliorare l’aria delle sue città, ma vuole anche conquistare il mercato mondiale delle energie alternative. Fin qui Usa e Ue hanno puntato su sole e vento per rianimare le loro economie «mature». Ma ora la Cina strappa all’America il primato nell’eolico e piazza sette sue aziende tra i primi dieci produttori mondiali di pannelli solari. Gli Stati Uniti, che si sentono defraudati del loro primato tecnologico, accusano Pechino di aver sviluppato un intero settore produttivo col massiccio ricorso a sussidi illegale. Così la sfida delle energie alternative rischia di trasformarsi in una battaglia legale davanti al tribunale commerciale del Wto.

 

 

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