Parliamo meno del coronavirus, il dittatore dei nostri dialoghi in pubblico e in privato

Se lasciamo spazio solo ad argomenti legati al Covid-19, il virus può cantare vittoria. Proviamo a voltare pagina, anche con leggerezza. Abbiamo tutto da guadagnare da una presa di distanza dal virus

PSICOLOGIA E CORONAVIRUS

Dopo mesi di quarantena, di paure, di rabbia e di dolore per chi ha sofferto per la malattia o per la perdita di una persona cara, il coronavirus canta vittoria. È riuscito a monopolizzare il nostro discorso, pubblico e privato. Non parliamo d’altro, e rischiamo di farlo ancora per molto tempo. Il Covid-19 è un autentico dittatore, la sua violenza si esercita anche attraverso il dominio della parola, una tirannia alla quale non riusciamo a ribellarci.

PARLIAMO MENO DEL CORONAVIRUS

L’agenda del discorso domestico ha avuto due fasi. La prima: tutti uniti. Ovunque è stato possibile le famiglie si sono ricongiunte, figli e nipoti sparsi nel mondo sono tornati a casa, la compattezza è servita anche a vincere il trauma della chiusura totale di qualsiasi attività, della vita di relazioni che si spegne. Ci siamo inventati giochi, distrazioni, nuovi riti, e abbiamo scoperto, come se fosse una novità mentre nel mondo è già una prassi diffusa, le qualità del lavoro a distanza. Nel frattempo contavamo morti e contagiati e aspettavamo il bollettino con i suoi implacabili aggiornamenti. Siamo stati, durante tutta questa fase, avvolti nella nuvola di un dialogo incentrato solo e sempre sull’angosciante sorpresa arrivata con il coronavirus, come se non esistesse altro. Che cosa stiamo rischiando? Chi è il colpevole del contagio? Dobbiamo usare l’amuchina o la candeggina? 

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NON PARLARE SOLO DEL CORONAVIRUS

Abbiamo piegato perfino il dizionario della storia a questo linguaggio così ossessivo. Siamo in guerra, è come in guerra, e dopo le vittime al fronte dovremo fare i conti con la ricostruzione. Un parallelismo infondato per mille e ovvi motivi: basta leggere un paio di pagine di storia, o consultare qualche testimonianza ancora viva, per rendersi conto che il Covid-19 non ha nulla da spartire con la tragedia dei milioni di morti che si sono andati sommando nel corso di due guerre mondiali, consumate, di fatto, in continuità, per una trentina di anni. Accostare soltanto eventi così diversi non fa onore alla nostra intelligenza, e alla memoria di chi ha vissuto quelle pagine di storia, tra le più drammatiche da quando l’uomo è entrato nell’età della ragione.

Poi è arrivata la seconda fase del coronavirus: l’apertura delle porte. Molto graduale, ovviamente, forse perfino troppo timida. Ma anche qui le nostre parole, i nostri toni, il nostro modo di dialogare con gli altri, non è uscito dalla trappola del coronavirus, dalle leggi che il Covid-19 ha imposto. E allora, altre interrogativi angoscianti. Quest’anno faremo le vacanze? E dove? Il mio lavoro che futuro avrà e quali saranno i danni accumulati? In autunno ci sarà la ricaduta? Tante domande e molti insulti, al confine con l’odio, attizzati dalla rabbia come abbiamo raccontato qui, laddove servirebbero solo ragionevolezza, freddezza e buonsenso.

Non parliamo del discorso pubblico. Il governo ha stravolto l’agenda della comunicazione incentrandola per mesi attorno alla sua raffica di provvedimenti. Così hanno fatto poi i vari governatori nei rispettivi territori. Una fetta del palcoscenico della parola è stata arraffata da esperti, virologi, medici, commissari. Tutti pronti a cavalcare, con opaco narcisismo, questa onda della popolarità, della parola facile, purché sia declinata secondo l’alfabeto del Covid-19. Tutti reclutati nell’orgia delle parole, ad altissimi livelli di ascolti, con le quali riempire i contenuti adrenalinici dei talk show. Non siamo riusciti neanche per un giorno, dicasi uno, a prendere un minimo di distanza di sicurezza, di lucido distacco, dagli effetti a catena del virus. Un giorno abbiamo discusso (e litigato) per le mascherine, il giorno dopo per le messe. Mai una pausa.

PSICOLOGIA E CORONAVIRUS

E adesso? Non c’è bisogno dello psicologo o dell’analista per rendersi conto che la dittatura della parola del coronavirus è un altro virus dal quale dobbiamo liberarci. Basta. L’affondo è riuscito anche per una nostra inerzia psichica, per una fragilità che ha messo a nudo quanto siamo esposti, dopo anni di rimozione, all’inquietudine e alla paura della cosa più naturale della nostra vita. La morte.

Come tutte le dittature, anche quella del Covid-19 per essere abbattuta ha bisogno della nostra reazione, di una forma di accerchiamento. Serve un buon esercizio di leggerezza, e qualche buona pratica. Proviamo a girare pagina, come quando durante una conversazione tra amici ci rendiamo conto di avere toccato un tasto inopportuno. Facciamolo con delicatezza, ma anche con molta determinazione. Magari ci riusciamo.

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