Hikikomori: il fenomeno del ritiro sociale come specchio della società moderna

Età media tra i 19 e 30 anni. Ribelli passivi di scuola e università. Scelgono di vivere in una stanza, che diventa il loro mondo. Le origini del fenomeno.

hikikomori chi sono

Hikikomori: parola giapponese dal suono evocativo, che ha contorni inquietanti quando la si spiega. Nel paese del Sol Levante, infatti, significa «isolarsi, stare in disparte».

Gli hikikomori che hanno scelto una vita di auto-isolamento dal mondo esterno, sono principalmente ragazzi e Il governo giapponese, in un eccesso di allarmismo, aveva quantificato il fenomeno in un milione di persone, quasi l’1 % della popolazione.

Ma l’Università di Okinawa ha rettificato la cifra, parlando di 410.000 individui in condizioni di auto-esclusione sociale, stima considerata più attendibile.

Pur non essendo un disturbo psichiatrico riconosciuto, rappresenta oggi una sfida culturale, educativa, sociale e sanitaria.

Chi sono gli Hikikomori

Gli hikikomori, solitamente, sono giovani primogeniti di ceto sociale medio-alto con età media dai 19 ai 30 anni, che soccombono alla pressione sociale e agli alti standard richiesti dalla società giapponese. E si rinchiudono in una stanza, che diventa il loro mondo.

Le dinamiche, pur variando da persona a persona, seguono un andamento ricorrente: si inizia riducendo le uscite, poi si evitano attività sociali e scolastiche, fino a ritirarsi completamente nella propria stanza. Il ritiro può essere totale o parziale, ma sempre volontario e prolungato.

Molti mantengono rapporti virtuali tramite internet e videogiochi, non necessariamente come dipendenza, ma come modalità sicura e non giudicante di relazione.

Il mondo online diventa un luogo in cui sentirsi competenti e accettati, in contrasto con l’ambiente esterno vissuto come ostile o opprimente.

La famiglia spesso si trova a sostenere la quotidianità del ragazzo ritirato: porta il cibo, media i contatti col mondo, evita conflitti.

Non si tratta di lassismo ma di smarrimento.

Molti genitori temono di aggravare la situazione con imposizioni o richieste troppo rigide, finendo però per facilitare — involontariamente — la stabilizzazione del ritiro.

Anche in Italia il fenomeno ha numeri consistenti, sebbene se ne parli male e con molta approssimazione.

Secondo una stima ancora poco precisa sarebbero migliaia gli hikikomori italiani, ma la cifra resta nebulosa perché anche la comunità accademica non riesce ad inquadrarne bene i confini e spesso confonde la realtà hikikomori con altri tipi di disturbi della socialità o, addirittura, con disturbi dello spettro autistico.

Cosa significa Hikikomori

Proviamo quindi a partire da cosa non è il fenomeno hikikomori per provare a definirlo.

Hikikomori non è accomunabile alla depressione. Questa è una falsa credenza nonché una semplificazione e non è nemmeno una pura e semplice fobia sociale.

Non è una malattia, come ha riconosciuto lo stesso DSM, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, e non è nemmeno assimilabile, come spesso si tende a fare, con la dipendenza da internet o dai dispositivi elettronici.

«Sono viziati», lo stereotipo per eccellenza degli hikikomori visti come fannulloni senza voglia con genitori troppo permissivi, oppure «Sono degli eremiti», sono solo alcune delle cose che si affermano, a sproposito, quando si parla di hikikomori, fenomeno complesso che affonda le sue radici in un’eccessiva pressione alla realizzazione personale, alla carriera, al successo.

Lo stigma sugli hikikomori, pesa come una spada di Damocle sulla comprensione di un fenomeno che andrebbe studiato ed approfondito, ma che invece viene ridotto a una serie di luoghi comuni.

Parlarne correttamente potrebbe essere il primo passo verso l’inquadramento e la conoscenza di un fenomeno che è tipico delle società del benessere, come non manca di spiegare in modo esaustivo la prima comunità italiana di discussione sugli Hikikomori.

Perché si diventa Hikikomori

Le cause dell’hikikomori sono multifattoriali e dipendono da una combinazione di elementi individuali, familiari, scolastici e culturali. Nello specifico.

Aspetti psicologici individuali

Molti giovani ritirati presentano:

  • sensibilità emotiva elevata;
  • perfezionismo;
  • paura del giudizio;
  • bassa autostima;
  • difficoltà nella gestione delle aspettative personali e altrui.

La sensazione ricorrente è quella di non essere all’altezza.

Famiglia e dinamiche relazionali

Le famiglie degli hikikomori sono spesso affettuose e protettive, talvolta troppo. Le aspettative elevate, la difficoltà a tollerare il fallimento e la mancanza di comunicazione aperta possono contribuire alla vulnerabilità del ragazzo, che vive il mondo esterno come troppo esigente.

Scuola e pressione sociale

La scuola, in Italia come in Giappone, è spesso il primo luogo di disagio. Episodi di bullismo, esclusione, giudizi negativi, competizione, ansia per gli esami o insuccessi possono essere fattori scatenanti.

L’idea di dover competere costantemente spinge molti giovani a percepirsi come inadatti o incapaci.

Tecnologia e iperconnessione

La rete non crea il fenomeno, ma lo alimenta fornendo un rifugio che riduce la necessità di tornare alla vita offline: si può socializzare, giocare, imparare, lavorare senza mai uscire di casa. Per alcuni, questa possibilità diventa un punto di non ritorno.

Cultura moderna e paura del fallimento

L’hikikomori cresce in un contesto sociale dove successo e produttività sono criteri centrali per definire il valore personale. Non riuscire a corrispondere agli standard diventa insopportabile per chi ha già un fragile equilibrio emotivo.

Quali sono i sintomi e gli effetti del ritiro

Con il passare dei mesi, l’isolamento genera cambiamenti significativi nella vita del giovane:

Sul piano sociale, il ritiro compromette anni di formazione scolastica, competenze relazionali e possibilità lavorative.

La dipendenza economica dalla famiglia si protrae nel tempo e il reinserimento diventa più difficile quanto più lungo è stato il periodo di isolamento.

Come si può intervenire

L’intervento nei casi di hikikomori richiede delicatezza, gradualità e un approccio multidimensionale. Non funzionano pressioni, ultimatum o forzature: spesso ottengono l’effetto contrario.

  • Psicoterapia individuale: È utile per rielaborare la percezione di sé, affrontare ansia, paure e aspettative irrealistiche e ad aiutare a costruire gradualmente competenze sociali. L’obiettivo è ristabilire la fiducia nella propria capacità di affrontare il mondo esterno.
  • Terapia familiare: Fondamentale per modificare le dinamiche che mantengono il ritiro. Aiuta i genitori a trovare un equilibrio tra sostegno e richieste realistiche, evitando comportamenti che consolidano l’isolamento.
  • Interventi domiciliari e outreach: Alcuni professionisti si recano direttamente nelle abitazioni per instaurare un primo contatto con il giovane, soprattutto quando la motivazione al cambiamento è minima.
  • Reinserimento graduale: Si procede passo dopo passo:
  1. regolarizzare sonno e routine;
  2. introdurre piccoli compiti quotidiani;
  3. sostenere uscite brevi;
  4. favorire forme di socializzazione sicure;
  5. pianificare un ritorno progressivo a studio o lavoro.

Il successo dipende da tempi e ritmi personalizzati, non da schemi rigidi.

Il ruolo delle istituzioni

Scuole, servizi sociali e sanità territoriale dovrebbero collaborare per intercettare precocemente i segnali del ritiro: assenze frequenti, isolamento, calo del rendimento, difficoltà relazionali.

Sportelli di ascolto, formazione del personale, protocolli condivisi e reti territoriali sono strumenti che possono fare la differenza.

Anche le istituzioni nazionali e regionali dovrebbero promuovere:

  • Centri specializzati per il ritiro sociale;
  • Percorsi di sostegno alle famiglie;
  • Campagne di sensibilizzazione;
  • Programmi di prevenzione nella scuola primaria e secondaria.

Il fenomeno non è solo clinico o educativo: è sociale. Per questo, richiede risposte integrate.

Conclusione

Potremmo quindi parlare di hikikomori come una risposta adattativa a una società che chiede il massimo, che definisce l’individuo in base alla vita piena di successi, alla carriera, e non ai legami tra le persone, che non insegna l’affettività e non pone come valore una vita affettiva e relazionale soddisfacente.

Non è un caso, infatti, che molti hikikomori lo diventino durante il ciclo scolastico, vivendo la scuola o l’università come un contesto difficile ed odioso.

Non sopportando la pressione, la spinta al conformismo valoriale e alla realizzazione personale, chiudono la porta alle proprie spalle e si isolano dal mondo.

Ancora tanto c’è da fare per sgombrare il campo dalle facili semplificazioni sul fenomeno o sullo stigma sociale. Occorre parlarne più possibile, in modo corretto, e iniziare a riflettere in modo compiuto su che tipo di società stiamo confezionando ai nostri figli e ai nostri nipoti.

Leggi anche:

Vuoi conoscere una selezione delle nostre notizie?