Lo sbarco di Starbucks a Milano: perché siamo diventati una colonia anche nel caffè?

La catena americana a Milano apre il più grande negozio d’Europa. Poi passerà anche alle altre regioni. Molto bene per i posti di lavoro che si creano, molto male per il nanismo dei nostri imprenditori. Così tra l’altro i piccoli bar soffriranno, e i consumatori pagheranno il caffè tre volte in più.

STARBUCKS IN ITALIA –

Premetto: non ho nulla contro Starbucks. All’estero mi è capitato di bere un suo caffè (ma in Italia direi sicuramente “no, grazie”) e 350 posti di lavoro che arrivano (speriamo che le cifre siano corrette) con l’apertura del negozio di Milano, il più grande d’Europa, valgono oro. Eppure l’idea che in Italia, la patria del migliore espresso del mondo, nella regione e nella città più ricche del Paese, la Lombardia e Milano, in un palazzo storico, la ex sede delle Poste, a presidiare questo mercato sia un colosso americano, francamente mi indigna. Mi fa rabbia, per il semplice fatto che penso a quante opportunità sprechiamo con i nostri marchi, i famosi brand, le nostre competenze, sempre sul filo dell’artigianato industriale, la nostra creatività: tutto nell’angolo, per colpa di un congenito nanismo, talvolta abbinato a miopia, del nostro capitalismo. Dei nostri capitalisti sempre senza capitali. E qualche volta anche un tantino furbetti più che lungimiranti.

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APERTURE STARBUCKS IN ITALIA –

Starbucks è di fatto la prima catena mondiale del caffè (ne esistono anche altre, e nessuna è italiana), con 24mila caffetterie in 70 paesi: un colosso, nato grazie all’energia di Howard Schultz, nei vicinissimi e frizzanti anni Ottanta. E sapete a quale modello si è ispirato questo tycoon americano? Alle caffetterie italiane. D’altra parte non poteva fare diversamente, visto che la patria del caffè in tazzina come luoghi (i bar, le caffetterie), prodotto (le industrie di torrefazione) e cultura (i nostri riti quotidiani) è l’Italia. Punto. Quindi, a forza di restare piccoli e con gli occhi chiusi a difendere orti e orticelli, abbiamo ottenuto lo smacco: il gigante che viene a colonizzare la patria del caffè. Parte da Milano e poi, se funziona, sbarcherà in tutte le regioni italiane. Tutto normale, tutto secondo le logiche del mercato, laddove mentre le nostre banche pensavano a finanziare spregiudicate operazioni immobiliari di presunti imprenditori, l’industria globale, con i relativi punti di vendita, ha continuato a crescere con innovazione, marketing, dimensioni. Come appunto racconta il fenomeno Starbucks che a Milano si è presentato anche nella veste di mecenate del verde, visto che ha regalato le famose e discusse palme di piazza Duomo. A fronte del quale la miriade di industriali del caffè che abbiamo in Italia altro non sono che nanetti, ed eccellenze industriali, pensiamo a Lavazza e Illy, hanno deciso di rinunciare a competere con la catena americana sul fronte commerciale.

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STARBUCKS MILANO –

L’operazione Starbucks avviene attraverso Antonio Percassi, ex calciatore dell’Atalanta e del Cesena, diventato un potente distributore commerciale attraverso una rete di centri molto efficaci. E Starbucks si presenta con tutta la sua gamma di prodotti, tra i quali una serie di miscele tutte ispirate, guarda caso, a nomi italiani: Frappuccino, Caramel Mocha, Espresso macchiato, doppio e americano. Una corazzata in un mercato molto ricco, visto che il 69 per cento degli italiani consuma la mattina almeno un caffè al giorno al bar.

STARBUCKS IN ITALIA: PERICOLO O OPPORTUNITÁ –

L’incredibile e paradossale colonizzazione del caffè presenta molti problemi. Il primo: ma non potevamo farla noi italiani una catena tipo Starbucks? Possibile che non riusciamo più, anche come imprenditori, a pensare e sognare in grande? Il secondo effetto negativo lo subiranno i bar, ai quali il gigante americano farà una concorrenza spietata, forte di un brand ormai riconosciuto in tutto il mondo. Infine, una stangata aspetta i consumatori: il prezzo del caffè venduto dagli americani sarà circa tre volte più alto rispetto alla tazzina made in Italy.

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