Starbucks avanza in tutte le regioni: un’occasione sprecata per l’Italia

Il caffè come la pizza, i gelati, la moda. Facciamo ottimi prodotti, ma non riusciamo mai a pensare in grande. E diventiamo un mercato da conquistare

STARBUCKS AVANZA IN ITALIA

Starbucks, il colosso americano di torrefazione e caffetteria, continua ad avanzare in Italia, aprendo nuovi sedi anche in Veneto. Sono ormai una quarantina le sedi di un’attività che macina profitti e crea posti di lavoro. Con uno spreco sullo sfondo, considerando che siamo la patria del caffè:  a parte gli ottimi produttori e la miriade di piccole torrefazioni, in Italia si consumano al bar quasi 100 milioni di tazzine di espresso all’anno, con una media di 1.6 per ogni abitanti. Quindi è naturale porsi la domanda “Come mai non abbiamo fatto una Starbucks tutta italiana? “. Rischiamo di essere una colonia anche per il caffè, un mercato da occupare, sprecando l’opportunità di pensare in grande.

PRODOTTI ITALIANI SPRECATI

Caffè, gelato, pizza e caffè, la storia è sempre la stessa: gli italiani partono primi, ma arrivano ultimi. Si tratta di tipiche eccellenze made in Italy, patrimonio e identità di un Paese, prodotti che fanno parte di un patrimonio economico e culturale, dove l’alta qualità è solo la premessa. Peccato, però, che appena si esce dall’universo delle piccole aziende, di livello e di dimensioni artigianali, e si entra nel girone della grande industria, nel nome appunto del caffè, della pizza e del gelato, l’Italia semplicemente scompare. E tutto diventa patrimonio degli stranieri. Con uno spreco incredibile per il sistema Italia, per la nostra crescita economica, per migliaia e migliaia di posti di lavoro che si perdono.

L’Italia produce, con la sua miriade di piccole e minuscole aziende, 595 milioni di litri di gelato, il 19 per cento del totale dell’Unione europea. Siamo primi. La Germania, infatti, si ferma a 515 milioni di litri, la Francia a 454, la Spagna a 301, la Gran Bretagna a 258. Se però rovesciamo il discorso e guardiamo alle esportazioni, che sono il termometro della forza e della capacità di conquistare i mercati da parte di un’azienda, allora il discorso cambia. E diventiamo ultimi. Le esportazioni tedesche di gelati sorbetti e ghiaccioli arrivano a 401 milioni, quelle francesi a 398 milioni, mentre gli italiani non fatturano più di 223 milioni di euro all’estero. Contano, in questa differenza, le dimensioni delle aziende, la sponda che hanno dalle banche e dalla politica per conquistare i mercati, la capacità degli imprenditori di non restare chiusi nei loro orticelli.

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BRAND ITALIANI DI SUCCESSO

Dalla tazzina al gelato, alla pizza. Anche in questo settore stiamo assistendo all’arrivo, sul territorio nazionale, del gigante americano: il colosso Domino’s Pizza ha aperto le sue pizzerie con l’obiettivo di mettere le sue bandiere su un mercato molto ricco, da Bolzano a Palermo. L’avventura di Domino’s Pizza ha lo stesso timbro di Starbucks, ovvero una versione stelle e strisce di un tipico prodotto tricolore, con la stessa capacità di utilizzare un’eccellenza di nicchia per trasformarla nel presidio di un mass market. Attualmente Domino’s Pizza, sede nel Michigan e data di nascita che risale al giugno del 1960, quotata a Wall Street, fattura 8,9 miliardi di dollari, con 12.100 punti vendita in 80 mercati (soltanto in India, tra New Delhi e Madras, controlla 400 locali). Inoltre il gruppo è leader mondiale nel settore della pizza a domicilio.

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LA QUALITÀ DEI PRODOTTI ITALIANI

Caffè, pizza, gelati: la musica è sempre la stessa. Noi abbiamo la qualità, il marchio, perfino i codici genetici, di prodotti alimentari di larghissimo consumo, ma non riusciamo mai a presidiare i grandi network, ovvero gli imperi industriali e finanziari che nascono sotto il segno di un brand. Il caffè italiano è patrimonio dell’Unesco, la pizza napoletana ha il marchio di Bruxelles di Specialità tradizionale garantita (Sgt), ma i veri affari da economia globale, con questi articoli, li fanno gli altri, mai noi. Perché? Una prima risposta arriva dalla debolezza finanziaria delle nostre imprese che sono, generalmente, sottocapitalizzate e “bancodipendenti”, ovvero prigioniere del sistema bancario che monopolizza il credito industriale. La Borsa è solo un catino (anche questo dominato dalle banche e dai grandi gruppi pubblici) e l’enorme risparmio liquido degli italiani (circa 3.500 miliardi di euro) finisce ovunque, anche sotto i materassi, tranne che a mettere carburante per alimentare la crescita del sistema produttivo e distributivo. Per fare una grande catena, con respiro internazionale, non basta il brand e la qualità di un prodotto, servono anche soldi, e tanti: quelli che le imprese italiane non sono in grado di mettere sul tavolo. Più di un terzo degli acquisti di pizze, per fare un esempio, nel mondo passa attraverso i cellulari, le app e Internet. Il gruppo Starbucks per rendere più competitivi i propri locali, si è allargato, con forti investimenti perfino nel settore dell’intrattenimento, creando la Starbucks digital network, che produce film, serie tv e news, innanzitutto per i coffee shop della catena.

DEBOLEZZA DELLE IMPRESE ITALIANE

Il secondo punto di debolezza riguarda le dimensioni delle imprese. In Italia soltanto lo 0,8 per cento delle aziende ha un fatturato superiore ai 50 milioni di euro, mentre il 94 per cento non supera i 2 milioni di euro. Il nanismo delle imprese è diventato un male cronico del sistema industriale made in Italy, e ne soffrono proprio le migliori eccellenze, dove la frammentazione è più forte. Infine, lo spreco è il frutto del nostro eccessivo individualismo, talvolta condito anche da punte di narcisismo imprenditoriale. Restando al perimetro del made in Italy, il caso paradigmatico è quello della moda. Siamo concorrenti diretta della Francia in un settore che ci vede leader di mercato al mondo, dopo i francesi. Siamo creativi, capaci di modernizzare stile e materiali. Ma non riusciamo mai a metterci insieme. Risultato: la Francia ha creato due colossi mondiali della moda, l’Italia neanche uno. E negli imperi di Arnault e Pinault ci sono anche tanti brand del made in Italy, finiti nelle mani dei francesi con le relative quote di mercato.

UN GELATO DAVVERO GENUINO? COSÍ LO RICONOSCETE. E COSÍ LO FATE IN CASA:

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