Ad abitazioni abbandonate e a montagne di rifiuti,
e alla mancanza di cura per quel che c’è attorno a noi. E anche alle
distruzioni, che l’uomo progetta incurante del futuro del pianeta,
delle foreste dell’Amazzonia o dei territori vergini della Siberia.O
alla povertà insopportabile delle favelas sudamericane.
Ce ne lamentiamo, ci arrabbiamo, qualche volta protestiamo, ma siamo
convinti che il degrado stia tutto fuori di noi, che faccia parte dell’ambiente
che ci circonda, che possa restarci estraneo. Ma possiamo davvero dire che
sia così? Che l’ambiente, i quartieri, le città si degradano mentre noi possiamo
rimanere indenni? Che degrado significhi solo rifiuti abbandonati,
case fatiscenti, centri storici lasciati andare? Oppure è vero che esso nasce
da qualcosa che è in noi (“Se ’l mondo presente disvia, in voi è la cagione”,
diceva il Poeta) e ci tocca e ci trasforma? E che dall’ambiente si trasferisce
alla persona, dalle cose all’anima e alla mente?
Perché il degrado è contagioso. È difficile sottrarvisi. È pressoché impossibile
costruire una personale isola di benessere dove tutto va in rovina.
E quando la rovina comincia, è difficile fermarla. È difficile che non arrivi
dentro di noi. Alcuni psicologi hanno fatto un esperimento. Hanno lasciato
un’automobile nuova fiammante in un quartiere bene di una grande città.
L’auto è rimasta parcheggiata giorno e notte senza che nessuno facesse neppure
un graffio alla carrozzeria. Poi sempre nello stesso luogo – a scopo sperimentale
– è stata parzialmente danneggiata: un finestrino lesionato, un parafangoammaccato,
uno sportello danneggiato. In pochi giorni a quei danni
se ne sono aggiunti altri, l’auto è stata distrutta, fatta pezzi. Attorno a essa
sono stati trovati rifiuti di ogni tipo. In pochi giorni lo spazio che circondava
l’auto era diventato un contagioso centro di degrado. Che aveva evidentemente
coinvolto anche gli abitanti di un quartiere “perbene”.
Consola sapere che è anche vero l’opposto, che il risanamento di una condizione
degradata produce e allarga benessere. Pochi ricordano, di fronte alle
odierne immagini devastanti di Napoli sommersa dai rifiuti, quel che avvenne
nel 1994, quando la città ospitò ilG8e volle dare una prova straordinaria di
efficienza, d’ospitalità e d’orgoglio. In breve tempo Napoli divenne pulita.
Strade, piazze, angoli, bar, ristoranti, alberghi,mostrarono una faccia nuova.
Persino i cestini per la spazzatura suimarciapiedi rimasero lindi. Si raccontava
che i napoletani per non sporcarli preferissero portare i rifiuti a casa.
Per qualche giorno, sotto l’occhio esterrefatto dei Grandi della Terra e
dei giornalisti venuti da tutto il mondo la città apparve tirata a lucido, attiva,
dinamica. Bella lo era già. E con essa si modificarono anche i napoletani:
gentili, efficienti e orgogliosi. Il contrario dello stereotipo che era nella
testa di tanti.
Al degrado si può reagire. E non solo – come pensano molti con una punta
di ostinato snobismo – girando la testa dall’altra parte.Osostenendo quel
“preferirei di no” opposto dal melvilliano scrivano Bartleby ai compromessi
e alle brutture del mondo. Certo, il rifiuto è una dignitosa presa di posizione
e l’annuncio che non si sta al gioco. Può essere l’inizio di una risposta, ma
non basta a salvarsi. Alla fine inevitabilmente si viene contagiati e sommersi.
La resistenza non può che essere attiva, piena, consapevole. Nei campi
di concentramento nazisti, se ci si lasciava andare di fronte alla crudeltà
del campo e delle sue regole, ci si indeboliva lentamente, la denutrizione e
le malattie avevano il sopravvento. Si era sicuramente destinati alla morte.
Sopravvivevano coloro che non si lasciavano andare. E a quelle regole che segnavano
inesorabilmente la strada verso la fine opponevano le loro semplici
norme. Quelli che continuavano a curarsi, a lavarsi i denti, a fare ginnastica.
Che non cessavano di aver cura di sé e del proprio corpo, ma anche della propria
anima e della propria mente. Curando la prima ed esercitando la seconda.
Se questo esercizio è stato fatto nei campi di concentramento, è possibile
evidentemente anche oggi a Roma, a Parigi o a New York.
In Se questo è un uomo, Primo Levi fa un racconto straordinario di come i valori
della bellezza, dellapoesia, della cultura possano aiutare a sopravvivere,
possano far crescere rapporti umani e amicizie, e alla fine possano vincere
sul degrado del corpo e della mente imposto nei lager nazisti. L’amicizia fra
l’autore e Pikolo, un giovane prigioniero del campo, nasce dalla richiesta di
quest’ultimodi imparare l’italiano e dalla decisione di Levi di insegnarglielo
attraverso le terzine della Commedia. Cercarli nel ricordo, recitarli, provare
a tradurli in francese, e rimettere insieme i frammenti della memoria in
modo da costruire un rapporto umano, e restituire alla mente la capacità
di elevarsi sul degrado. È il canto di Ulisse quello che Levi cerca di ricordare
per il suo giovane amico: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per
seguir virtute e canoscenza”.
Perché – a pensarci bene – il degrado più pericoloso è quello che dall’esterno
arriva dentro e ci abbrutisce. Il quotidiano può diventare un campo di concentramento
se ci si adatta alle regole non dette del sopruso e alla violenza.
O ci si adagia nell’indifferenza nel rapporto con l’altro. O si mettono da parte
come inutili ingombri la bellezza e la poesia. Certo occorre essere vigili,
correggere senza però cadere in un atteggiamento disfattista, esercitarsi nei
piccoli grandi gesti di una vita fuori dal degrado. Ringraziare, sorridere, fare
un gratuito gesto di cortesia, regalare una parola di cordialità inaspettata,
mostrare rispetto per chi ci appare diverso, assumere un atteggiamento
di allegra leggerezza di fronte alle minime avversità. E contrastare anche
quel piccolo degrado che sembra non fare male a nessuno. Perché, anche se
piccolo, può moltiplicarsi. In breve può diventare grande, tragedia dell’anima
e peccato mortale.
Qualche mese fa la televisione trasmise le immagini di un litigio fra un
uomo e una donna nei pressi di una stazione della metropolitana romana.
Mostrano la donna che inveisce contro l’uomo e questo che, in preda alla
rabbia, con un pugno la fa cadere. Dopo qualche giorno di coma l’annuncio
della morte. Le immagini dello scontro sono di una violenza spropositata e
inaudita soprattutto se si tiene conto della inconsistenza delle motivazioni.
Ma il degrado non è solo in quella violenza e in quella terribile morte. Sta
nelle immagini che la telecamera implacabilmentemostra di tutti coloro che
passano davanti al corpo caduto della donna e non si fermano, non guardano,
non danno aiuto. Come se quel corpo fosse un rifiuto, da ignorare. I loro
sguardi vanno ostentatamente da un’altra parte.
Come quelli di alcuni bagnanti che altre immagini televisive, qualche
mese fa, hanno mostrato mentre prendevano il sole e si spalmavano di creme,
ignorando un telo bianco che a pochi metri da loro copriva un uomo
morto annegato.
Non so se quella stazione o quella spiaggia fossero sporche, in stato di
abbandono. Ma il degrado e lo scempio erano evidentemente presenti nella
mancanza di attenzione, nella brutalità delle relazioni, nella mancanza di
cura di quegli uomini e di quelle donne che preferivano non guardare. E che
ci ripropongono la domanda: il degrado è solo fuori di noi? •
Ritanna Armeni