Coronavirus, il modello coreano in Italia non è applicabile

Tutto poggia su un uso invasivo della tecnologia. E su una sorveglianza capillare, attraverso i nostri dati. Cosa che non possiamo permetterci, anche per una certa ipocrisia ...

app corona 100m

Lo strumento più efficace di chiama Corona 100m, l’app governativa messa in campo in Corea del Sud con ottimi risultati al fine di individuare i soggetti contagiati o quelli a rischio. Funziona così: attraverso i dati a disposizione, l’app fa scattare un vero e proprio allarme sullo smartphone quando si è vicini a un positivo nell’area di cento metri. Ancora: gli utenti sono informati di posti visitati da persone contagiate, di nuovo nell’area di cento metri. E sempre attraverso questo strumento è possibile avvisare le autorità sanitarie e rintracciare così contagiati e persone esposte. A quel punto, per chi non ha ancora una diagnosi, scattano in modo automatico la quarantena, i tamponi e la terapia. Il presupposto del funzionamento di questo sistema è la geolocalizzazione con Gps attraverso lo smartphone. Tradotto: i dati non sono più nostri, di ciascun cittadino, ma anche del governo. 

APP CORONA 100M

Una tecnica altrettanto invasiva in Corea del Sud è stata utilizzata attraverso i controlli capillari sulle carte di credito, sulle cartelle cliniche negli ospedali, sui social network, attraverso l’uso ovunque di telecamere di sorveglianza. Controlli di massa, a tappeto

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MODELLO COREA DEL SUD

Una volta appurato che il modello Corea del Sud ha funzionato, con una veloce capacità di circoscrivere la diffusione del coronavirus, individuando i veri soggetti a rischio e non andando a caccia di malati immaginari, resta la domanda che ci riguarda da vicino: è applicabile in Italia? Se parliamo degli aspetti tecnologici la risposta è una sola: sì, è più che possibile. Si tratta solo, come ha spiegato molto bene Vittorio Colao, per dieci anni amministratore delegato di Vodafone, di utilizzare i dati delle reti mobili in congiunzione con una app dedicata con Gps per arrivare a comunicare anche per quartiere. Come è stato fatto in Corea del Sud, appunto. I risultati sarebbero scontati anche in Italia, considerando che il 71 per cento dei cittadini del nostro Paese possiede uno smartphone e il 20 per cento un normale cellulare.

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CORONAVIRUS E PRIVACY

Ma non possiamo nascondere che il tema non è solo tecnologico: rimane aperta la questione del diritto alla privacy. Un’espressione con la quale in Italia spesso mettiamo insieme più cose, alcune condivisibili e perfino fondamentali, altre del tutto strumentali. Con il rischio, in questo caso, di fare solo qualche pasticcio, come sarebbe quello di applicare il modello della Corea del Sud con una tale serie di correttivi da renderlo del tutto inutile. Uno spreco di tempo e di risorse. 

Sulla privacy vanno dette tre cose. Tra i diritti inalienabili delle persone, previsto anche dalla Costituzione, c’è anche quello alla salute. E qui siamo in presenza di un rischio sanitario enorme, di massa, da affrontare con tutte le armi disponibili. Certo non possiamo pensare di vedere scorrere verso l’alto la contabilità del numero dei contagiati, dei ricoverati e dei morti, solo perché qualcuno, in questo caso lo Stato, vuole sapere se abbiamo avuto contatti con qualche persona a rischio. E intende avvertirci. 

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DEROGHE ALLA PRIVACY PER CONTENERE IL CONTAGIO

In secondo luogo, un’emergenza è per definizione una situazione circoscritta dal punto di vista temporale. E si può gestire, anche in condizioni drammatiche, sempre rispettando le persone. Abbiamo tanti strumenti di garanzia, compreso un organismo parlamentare (si chiama Garante della privacy) che abbiamo pensato bene di congelare in attesa che i partiti si mettano d’accordo per la spartizione dei posti, utili proprio a garantire il rispetto di questo diritto. Si tratta solo di farli funzionare e di fare in modo che, una volta tornata una condizione di normalità, si arretri anche con l’uso pervasivo dei nostri dati da parte dello Stato. Insomma: fine di una stretta sorveglianza.

A questo proposito, ed è l’ultima considerazione sulla privacy, bisogna anche uscire dalle secche dell’ipocrisia. I nostri dati da tempo, molto tempo, non sono più nostri. Li hanno nelle loro mani e li controllano, le grandi società dell’high-tech. O anche società ad hoc che, come abbiamo visto, sono capaci di influenzare campagne elettorali di grandi paesi e orientamenti decisivi dell’opinione pubblica. C’è un mercato nel quale vengono scambiati, dove ciascuno, venditore e compratore, ha qualcosa da guadagnare, tranne il cittadino-consumatore spiato. La condizione nella quale attualmente viviamo, come racconta nel suo ultimo libro, “Il capitalismo della sorveglianza”, la sociologa Shoshama Zuboff. Almeno, nel caso del coronavirus, l’uso invasivo dei dati serve a qualcosa di utile per tutti: la salute. E aiuta a vivere un tantino meglio, visto che in Corea del Sud non è stato necessario chiudere tutti a casa.   

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