POMPEI CROLLI. In una domus vicina a via di Nola – zona già da tempo chiusa al pubblico – giovedì 20 marzo è crollato un nuovo muro: dagli inizi del mese è già il secondo crollo. Il Ministero prontamente – dopo aver annunciato pochi giorni fa le ennesime “misure straordinarie” e l’arrivo di nuovo personale, tra cui i vigilantes privati – sottolinea di aver segnalato il nuovo disastro di Pompei all’autorità giudiziaria e di aver coinvolto l’istituto centrale del restauro per i rilievi. Questo ennesimo problema si aggiunge alle dichiarazioni che non lasciano molte possibilità di speranza: «Non riusciremo a spendere, entro la scadenza prevista del 2015, 105 milioni di euro stanziati dall’Ue». Sono le rassegnate parole del soprintendente Massimo Osanna. Un modo piuttosto singolare, sventolando la bandiera bianca in segno di resa, per iniziare il proprio lavoro, visto che la nomina di Osanna risale ad alcuni mesi fa ma soltanto ieri è diventata operativa dopo il via libera della Corte dei conti.
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La disarmante presa d’atto del fallimento del Grande Progetto Pompei, annunciato prima come il modello di una nuova Italia, poi scolpito in una legge nazionale del luglio scorso, e finora naufragato nel buio di una gestione fantasma, merita due considerazioni. Innanzitutto, a proposito di ombre, il soprintendente Osanna forse dovrebbe chiarirsi le idee in generale con Giovanni Nistri, il direttore generale del Grande Progetto, sui rispettivi ruoli operativi e sulle competenze di ciascuno. Infatti ci saremmo aspettati dal manager Nistri, e non dall’archeologo Osanna, la confessione-denuncia sulla paralisi dei cantieri, delle gare, e in generale dell’intero piano di messa in sicurezza dell’area archeologica.
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Questo tipo di ambiguità, o se volete di scambio dei ruoli e di invasioni di campo, introducono la seconda considerazione: per salvare gli scavi e per restituire un minimo di credibilità al Grande Progetto Pompei, non basta chiedere una proroga alla Commissione Europea per non perdere così i preziosi finanziamenti. Non basta e non serve, se non si chiarisce una volta per tutte, e qui la parola spetta innanzitutto al ministro dei Beni culturali e del Turismo, il meccanismo della governance. Con una netta e trasparente identificazione di ruoli e di competenze, con una forte e coraggiosa assunzione di responsabilità da parte di chi è in campo (a proposito: Fabrizio Magani, anche lui nominato nei mesi scorsi vice di Nistri, lavora all’Aquila o a Pompei?), con una autonomia operativa che non può essere solo formale. E con un definitivo salto in avanti nel rapporto tra il pubblico e il privato, che pure a Pompei potrebbe avere un ruolo importante, nella valorizzazione del patrimonio culturale.
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In proposito, il premier Matteo Renzi proprio in questi giorni ha sfidato i privati, invitandoli a investire nella cultura, a crederci anche in termini di rischio imprenditoriale e di contributo civile al sistema Paese. Ma il caos di Pompei è la prova più sconcertante di come sia impossibile in Italia per un privato mettere un euro, sotto qualsiasi forma, dalla sponsorizzazione alla scommessa di un investimento in operazioni che riguardano il recupero e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale. I privati, nelle attuali condizioni, in una palude come quella dove stanno affondando gli scavi archeologici più importanti del mondo, non possono avere alcun ritorno rispetto a un loro intervento, né in termini di mecenatismo, né sul piano delle opportunità economiche o dei vantaggi fiscali, né per una semplice operazione di marketing.
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Un privato può essere solo danneggiato a proposito di interventi nei beni culturali dai tentacoli di una politica che non decide, o decide male, e di una burocrazia che, con la scusa di un certificato anti camorra, di una firma che manca sempre, di un cavillo pescato nella penombra di qualche regolamento, riesce solo a bloccare tutto. Fino allo spreco e alla distruzione di ciò che invece dovrebbe essere protetto, tutelato, e valorizzato come avviene in qualsiasi Paese civile del mondo.
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