La rivoluzione senza consumi

di Serge Latouche      www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum   In L’institution imaginaire de la sociéte? Cornelius Castoriadis, attraverso la critica della razionalizzazione infinita, si dichiara decisamente un «obiettore di crescita»: «Si dice spesso […] – scrive – che “tutto è subordinato all’efficacia”, ma efficacia per chi, per che cosa e per quale scopo? La crescita economica è stata realizzata: […]

di Serge Latouche      www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum

 
In L’institution imaginaire de la sociéte? Cornelius Castoriadis, attraverso la critica della razionalizzazione infinita, si dichiara decisamente un «obiettore di crescita»: «Si dice spesso […] – scrive – che “tutto è subordinato all’efficacia”, ma efficacia per chi, per che cosa e per quale scopo? La crescita economica è stata realizzata: ma per fare cosa, per chi, a quali costi, e per arrivare dove? Se si eludono queste domande, non ci sono più ostacoli all’espansione della nostra razionalizzazione immaginaria. Niente può fermarla, è senza limiti [il che si traduce nella sostituzione dell’essere umano “con un insieme di aspetti parziali scelti arbitrariamente secondo un sistema arbitrario di fini”], elevata al rango di necessità obiettiva, mentre qualsiasi dubbio viene considerato appannaggio di “persone poco serie come i poeti e i romanzieri”» [nota 24, leggi in coda all’articolo]. Come si vede, ritroviamo in Castoriadis il punto di partenza del progetto di società della decrescita.
Come uscirne? Naturalmente, si deve pensare innanzitutto all’educazione, la paideia. Castoriadis si interroga: «Che vuol dire, per esempio, la libertà o la possibilità per i cittadini di partecipare, se non c’è, nella società di cui parliamo, quel qualcosa che va scomparendo nelle discussioni contemporanee […], e cioè la paideia, l’educazione del cittadino? Non si tratta di insegnargli l’aritmetica, si tratta di insegnargli a essere cittadino. Nessuno nasce cittadino. E come lo si diventa? Imparando a esserlo. Lo si impara, in primo luogo, guardando la città in cui ci si trova. E sicuramente non attraverso la televisione che si guarda oggi» [25].
Tuttavia, questo è possibile soltanto se la società della decrescita è già realizzata. Bisogna prima uscire dalla società dei consumi e dal suo regime di «cretinizzazione civica». La questione della fuoriuscita dall’immaginario dominante, per Castoriadis come per noi, è fondamentale, ma estremamente difficile, perché non si può decidere di cambiare il proprio immaginario, e ancor meno quello degli altri, soprattutto se «dipendenti» dalla droga della crescita. A una domanda su questo punto – «In precedenza lei ha detto che bisogna voler lavorare sulla propria anima, che bisogna voler pensare: dunque sarebbe la volontà il punto di partenza di questa ricerca della libertà?» – Castoriadis risponde: «Certo, ma questa volontà è motivata anche dalla riflessione, e dal desiderio. Bisogna desiderare di essere liberi, se non si desidera di essere liberi non si può esserlo. Ma non basta desiderarlo, bisogna farlo, cioè mobilitare una volontà, e praticare una prassi, una prassi riflessiva e deliberata che permetta di realizzare questa libertà in quanto possibilità che risulta imma nente nella misura in cui lo si desidera» [26].
Noi possiamo fare nostra la risposta di Castoriadis. Tuttavia, una volta identificati i cambiamenti necessari, è chiaro che questi non possono essere attuati con una decisione volontarista, del genere: «Oggi pensiamo così, Castoriadis, pensatore della decrescita domani dobbiamo pensare diversamente». Come osserva ancora Castoriadis: «La famiglia, il linguaggio, la religione delle persone non si trasformano con le leggi e i decreti, e ancor meno con il terrore» [27]. Il punto è esattamente questo. Tutti i tentativi di cambiare radicalmente i modi di pensare e i modi di vita, sempre più o meno compiuti con la forza, hanno avuto dei risultati terrificanti, come dimostra l’esperienza dei Khmer rossi in Cambogia. È per questo d’altronde che i nostri avversari, quando vogliono delegittimarci, presentano in modo caricaturale le nostre posizioni chiamandoci «Khmer verdi».
Castoriadis è ancora più chiaro nel dibattito con il Mauss: «Possiamo anche dire, come fa Caillé, che esistono dei valori di solidarietà estremamente importanti; ma non possiamo farne uno dei punti di un programma politico» [28].
Denunciare l’aggressione pubblicitaria, oggi veicolo di ideologia, è sicuramente il punto di partenza della controffensiva29 per uscire da quello che Castoriadis chiama l’«onanismo consumistico e televisivo».30 Il fatto che la rivista «La décroissance» sia stata fondata dall’associazione Casseurs de pub non è un caso. Il movimento degli obiettori di crescita è largamente e naturalmente legato alla resistenza all’aggressione pubblicitaria. In effetti la pubblicità costituisce la molla fondamentale della società della crescita – cosa d’altronde riconosciuta, non senza un certo cinismo, dagli stessi pubblicitari. «Possiamo svilupparci soltanto come società di sovraconsumo – scrive Jacques Séguela –. Questo surplus è una necessità del sistema. […] Questo sistema fragile sopravvive soltanto grazie al culto del desiderio» [31]. In sostanza, siamo di fronte a un vero e proprio complotto, ben analizzato da Edward Bernays, il nipote di Freud, che come un perfetto cesellatore ha snaturato la psichiatria per applicarla al marketing, cioè all’arte del riduttore di teste per eccellenza. Con un cinismo e una lucidità incredibili, Bernays dichiara che «la manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle convinzioni delle masse è un elemento importante della società democratica. Coloro che manovrano questo meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è la vera potenza regnante del paese» [32]. In effetti, osserva Castoriadis, «tutto quello che avviene nella società non avviene per costrizione: le persone vogliono questo modo di consumo, questo tipo di vita, vogliono passare tante ore al giorno davanti alla televisione e giocare con il computer di casa. C’è qualcosa di diverso da una semplice “manipolazione” da parte del sistema e delle industrie che ci guadagnano. C’è un enorme movimento – uno scivolamento – in cui tutto si tiene: le persone si spoliticizzano, si privatizzano, si rifugiano nella loro piccola sfera “privata”, e il sistema fornisce loro i mezzi per farlo. E quello che le persone trovano in questa sfera “privata” le allontana ancora di più dalla responsabilità e dalla partecipazione politica» [33].
La decolonizzazione dell’immaginario sarà un processo lungo, che dovrà avvenire per autotrasformazione. Ma, osserva ancora Castoriadis, «nel frattempo il procedere automatico della tecnoscienza continua a distruggere l’ambiente e a creare rischi immensi in un futuro sempre più prossimo” [34]. È dunque urgente intervenire. Ma che fare?
La conquista pacifica delle menti richiede molta pazienza. Di sicuro, la scommessa della decrescita non è vinta! Soltanto una crisi può accelerare le cose provocando un fermento rivoluzionario. Una rivoluzione è necessaria. Ma, va subito precisato, per noi come per Castoriadis, «rivoluzione non vuol dire né guerra civile né spargimento di sangue». In effetti, il nostro sistema sopravvive solo perché affonda le sue radici in una storia ricca e variegata, in tradizioni culturali che fagocita e distrugge ma che sono al tempo stesso indispensabili alla sua sopravvivenza. Probabilmente non è lontano il momento in cui la pianta parassita avrà soffocato del tutto l’albero di cui ha succhiato la linfa, condannando l’enorme e arrogante fogliame al deperimento e alla morte [35]. Tuttavia, questo crollo auspicabile non garantisce automaticamente un domani radioso, ed è a questo punto che la rivoluzione si impone. Castoriadis continua: «La rivoluzione è un cambiamento di determinate istituzioni centrali della società a opera della società stessa: l’autotrasformazione esplicita della società condensata in un tempo breve […] La rivoluzione significa l’ingresso della maggioranza della comunità in una fase di attività politica, ovverosia costituente. L’immaginario sociale si mette al lavoro e la vora esplicitamente alla trasformazione delle istituzioni esistenti» [36]. Già in La société ureaucratique Castoriadis definiva la rivoluzione come uno «strappo radicale da formeplurimillenarie della vita sociale, uno strappo che mette in discussione la relazione dell’uomo con i suoi strumenti di lavoro come con i suoi figli, il suo rapporto con la collettività come con le sue idee, insomma tutte le dimensioni del suo avere, del suo sapere e del suo potere» [37].
In questo senso, il progetto della società della decrescita è sostanzialmente rivoluzionario. Si tratta di un cambiamento di cultura non meno che delle strutture del diritto e dei rapporti di produzione. Tuttavia, trattandosi di un progetto politico, la sua realizzazione obbedisce più all’etica della responsabilità che all’etica della convinzione. La politica non coincide con la morale, e chi esercita la responsabilità deve fare dei compromessi con l’esistenza del male. La ricerca del bene non è la ricerca del Bene assoluto ma piuttosto quella del male minore.
Non per questo però il realismo politico deve significare abbandonarsi alla banalità del male, ma piuttosto contenerla nell’orizzonte del bene comune. In questo senso, per quanto radicale e rivoluzionaria, qualsiasi politica non può che essere riformista, e deve esserlo se non vuole sprofondare nel terrorismo. Ma d’altra parte questo necessario pragmatismo dell’azione politica non significa una rinuncia agli obiettivi dell’utopia concreta. Il potenziale rivoluzionario dell’utopia concreta non è incompatibile con il riformismo politico, a patto che gli inevitabili compromessi non degenerino in compromissione del pensiero.
La società della decrescita, come la società autonoma di Castoriadis, non è concepibile senza una fuoriuscita dal capitalismo. Tuttavia, la formula «uscire dal capitalismo» sta a indicare un processo storico che è tutto salvo che semplice. L’eliminazione dei capitalisti, la proibizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, l’abolizione del rapporto salariale o della moneta sprofonderebbero la società nel caos e sarebbero possibili soltanto grazie a un terrorismo generalizzato. Ma tutto questo non basterebbe per rimuovere l’immaginario capitalistico, anzi…
Uscire dallo sviluppo, dall’economia e dalla crescita non significa dunque rinunciare a tutte le istituzioni sociali che l’economia si è annessa, ma reinquadrarle in una logica differente. Anche su questo punto, siamo in sintonia con l’analisi di Castoriadis: «Nel marxismo c’è l’idea assurda che il mercato in quanto tale, la merce in quanto tale, “personificano” l’alienazione. Si tratta di un’idea assurda, in quanto i rapporti tra gli uomini, in una società ampia, non possono essere “personali” come in una famiglia. Sono sempre, e saranno sempre, socialmente mediati. Nel contesto di un’economia appena sviluppata, questa mediazione si chiama mercato(scambio)». «A mio parere – scrive ancora Castoriadis – è del tutto evidente che non può esistere una società complessa senza, per esempio, mezzi impersonali di scambio. La moneta esercita questa funzione, e in questo senso è estremamente importante. Che si sottragga alla moneta una delle sue funzioni nelle economie capitalistica e precapitalistica, cioè quella di strumento di accumulazione individuale di ricchezza e di acquisizione di mezzi di produzione, è una cosa. Ma in quanto unità di valore e mezzo di scambio, la moneta è una grande invenzione, una grande creazione dell’umanità» [38].
Alla domanda «Attualmente quali forze sociali sono portatrici di un’alternativa? Oppure l’idea stessa di un legame tra un’alternativa e delle forze sociali precise è falsa?», Castoriadis risponde: «Questa idea in effetti è falsa, in ogni caso per le società moderne. Non si può più affermare che il “proletariato” ha storicamente il compito della trasformazione della società. […] Oggi la trasformazione della società richiede la partecipazione di tutta la popolazione, e tutta la popolazione può essere resa sensibile a questa necessità – a eccezione forse di un 3-5 per cento di inconvertibili» [39]. Questa risposta coincide perfettamente con quella data dal subcomandante Marcos, ed è anche la nostra.
Per la decrescita vale quello che Castoriadis dice di tuttele idee innovative: «I loro avversari cominciano sostenendo che sono assurde, continuano dicendo che tutto dipende dal significato che si attribuisce loro e finiscono per affermare che le avevano sempre sostenute caldamente». Ma aggiunge: «Non bisogna mai perdere di vista il fatto che una simile “accettazione” a parole è uno dei mezzi migliori per far perdere a quelle idee la loro forza eversiva. […] La società contemporanea dà prova di un virtuosismo senza pari nell’arte del recupero o dello snaturamento delle idee» [40].
 

 

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