Brunello Cucinelli è un imprenditore umanista, un profeta di quello che lui stesso definisce “il capitalismo sostenibile”. Spesso parla più da filosofo e da profeta che da uomo d’affari, e c’è grande autocompiacimento nel declinare, di solito con qualche giornalista adorante pronto a raccogliere briciole di saggezza della Lezione su Vita & Dintorni tenuta da Cucinelli, le sue origini contadine, un classico del made in Italy in questa caso made in Umbria, il suo successo dovuto a indiscusse doti creative (il self marketing fa parte di questa “cassetta degli attrezzi del moderno “uomo venuto dal nulla e diventato grande con le sue mani”). Ma innanzitutto la sua visione dell’impresa, incentrata su un’idea a tutto tondo della sostenibilità. Vera? Falsa? A ciascuno che ascolta, l’ardua sentenza.
In teoria, lo storytelling sul capitalismo sostenibile del quale parla con estrema frequenza l’ottimo Cucinelli, significa stipendi più che decenti, ambienti di lavoro confortevoli, orari non massacranti, formazione e aggiornamento a disposizione di tutti. In partica, poi, queste cose vanno tutte verificate sul campo, e magari non attraverso la sola voce del padre-padrone, ma con un’attenta indagine, non certo giudiziaria, ma da informazione con senso critico, ascoltando, per esempio, chi ha lavorato con Cucinelli dall’inizio della sua avventura imprenditoriale.
Ci sono voci, ma consideriamole il frutto della classica refola del vento dell’invidia sociale e professionale, in base alle quali Cucinelli la realtà nell’universo del sistema aziendale “del re del cashmere” umbro sia molto diverso da ciò che appare. E tra il dr. Jekyll (l’imprenditore di talento, umanista, non interessato solo agli schei, ai soldi, come dicono in Veneto) e mister Hyde (il padre-padrone che usa il pugno di ferro con i suoi dipendenti), la verità potrebbe stare, come spesso accade, proprio nel mezzo.
Invece non ci sono dubbi sul tentativo che Cucinelli sta facendo, in parte probabilmente riuscito, di essere un industriale-artigiano del lusso, quello vero, non quello truccato di tanti suoi colleghi che appiccicano questa parola ai loro capi solo per spennare i clienti ammaliati da una griffe da esporre ben evidenza come se fosse uno scalpo.
Cucinelli firma i pulloverini di cachemire che se hanno le coste a righe, come le classiche magliette da tennis anni Sessanta, costano circa 3mila euro. E adesso ha tirato fuori il suo ultimo gioiello, chissà forse disegnato durante un seminario sulla filosofia del Capitalismo sostenibile: un paio di occhiali che si portano a casa pagando uno scontrino di 5mila euro, definiti, sui giornali dove circola in abbondanza la pubblicità a pagamento del brand Cucinelli, “un sfizio prezioso”. Concetto che, tradotto, significa: comprateli, se volete entrare nel club esclusivo di chi indossa oggetti da vero lusso, ovvero il capriccio pagato a peso d’oro, anzi platino.
Che cosa hanno di speciale questi occhiali per costare nientemeno che 5 mila euro, diciamo, occhio e croce, tre stipendi di quei dipendenti che Cucinelli considera il suo patrimonio umano di imprenditore umanista? Nulla, o tutto, è una questione di punti di vista. In termini di materiali un paio di Goldcraft 1978, questo il nome dell’ultimo “sfizio prezioso” del catalogo Cucinelli, sono fatti in titanio e oro 18 carati. Magari ci sarà anche qualche materia prima da tecnologia green, ovvero sostenibile. E soltanto i signori di Luxottica, quelli dell’azienda che materialmente realizza gli occhiali poi firmati da Cucinelli, altri ricchi imprenditori “venuti dal nulla” (il fondatore, Leonardo Del Vecchio, era un geniale e grande lavoratore, cresciuto in un orfanatrofio di Martinitt), sanno che cosa altro c’è all’interno di questi occhiali per arrivare a un prezzo così stratosferico. O se alla fine, gratta gratta, a parte l’indiscussa qualità ci sia anche una buona dose di avidità, tipica del settore del lusso in versione prezzo gonfiati solo grazie al nome di un brand. E sanno bene quali sono i margini di guadagno, che noi possiamo solo immaginare di un paio di occhiali presentati anche con la presunta qualità di “essere fatti a mano, in Giappone”, e non sappiamo per quale motivo non in Italia.
Chiariamo subito: chi se lo può permettere e ha voglia di sprecare 5 mila euro per l’acquisto di un paio di occhiali, è padronissimo di farlo. I soldi sono suoi e può farne l’uso che vuole, anche quello di cedere alle lusinghe dei titolisti filo-Cucinelli e tornare a casa con il Goldcraft 1978, convinto, beato lui, di avere acquistato “uno sfizio prezioso”. Dal nostro punto di vista restano soldi sprecati e una spesa comunque esagerata, piuttosto priva di senso, alla pari degli acquisti compulsivi, come spesso accade con gli oggetti che arrivano nelle vetrine con un valore enorme, a prescindere da tutto, materiali, funzione, uso, e solo in virtù di sofisticate ma anche piuttosto sfacciate, operazioni di marketing e di self-marketing.
Nell’immagine di copertina gli occhiali Goldcraft 1978 (Fonte: shop.brunellocucinelli.com)
Leggi anche:
- L’industria della moda paga il prezzo della sua avidità
- Marchi della moda che ancora sfruttano gli animali
- Stilisti ecosostenibili: 10 storie di successo
- Moda sostenibile: perché è importante
- Cosa possiamo fare per la moda sostenibile
Vuoi conoscere una selezione delle nostre notizie?
- Iscriviti alla nostra Newsletter cliccando qui;
- Siamo anche su Google News, attiva la stella per inserirci tra le fonti preferite;
- Seguici su Facebook, Instagram e Pinterest.