Il fast food non conviene

La sostenibile pesantezza dei fast-food ha trovato finalmente una spiegazione. Non è vero che mangiamo hamburger&patatine perché costano poco. La mano invisibile che ci serve il vassoio nelle centinaia di migliaia di ristoranti di tutto il mondo è quella della nostra coscienza: mangiamo quella roba lì perché ci piace. Punto. O no? Per anni economisti […]

La sostenibile pesantezza dei fast-food ha trovato finalmente una spiegazione. Non è vero che mangiamo hamburger&patatine perché costano poco. La mano invisibile che ci serve il vassoio nelle centinaia di migliaia di ristoranti di tutto il mondo è quella della nostra coscienza: mangiamo quella roba lì perché ci piace. Punto. O no?

Per anni economisti e sociologi di chiarissima fama (ed evidentemente pochissima fame) si sono scapicollati nell’interrogativo che tormenta la metà dell’umanità che non mangia quello che, mica per niente, è chiamato junk food: e cioè cibo spazzatura. E la risposta che sembrava aver convinto l’illustre consesso era quella che aveva messo spalle al muro i nemici di McDonald’s & Co: mangiamo fast food perché costa poco.

Il ragionamento non faceva un grinza. E ha trovato conferma d’altronde nei dati serviti sul piatto dalla recessione. Non solo durante la più grande crisi dal ’29 a oggi McDonald’s è stata l’unica multinazionale a non aver risentito dei consumi: è addirittura cresciuta. E del 4,6 per cento. Un vero e proprio mc-miracolo economico: che la prestigiosa rivista Forbes ha giustificato appunto con l’invidiabile politica di prezzi bassi che la cucina più grande del mondo ha potuto contenere nei suoi 33mila ristoranti disseminati agli angoli del pianeta.

Per carità: i numeri non ingannano. Ma uno dei più grandi esperti di cucina americani – Mark Bittman, scrittore e

chef per passione lui stesso – si è preso la briga di fare due conti sul New York Times. Davvero mangiamo Mc perché costa meno? Facciamo un po’ di esempi. Prendiamo un pasto medio per 4 persone – naturalmente in dose americane: due BigMac, un Cheeseburger, sei McNuggets di pollo, due patatine porzione media e due patatine porzione piccola, due soda piccole. Totale: 28 dollari. Ebbene, calcola il nostro reporter chef, le stesse quattro o addirittura sei persone potrebbero ugualmente essere saziate da un bel pollo arrostito in casa con tanto di insalata. Prezzo della spesa (condimenti inclusi): 14 dollari. E allora dove sta il risparmio?

Il buon Mark non nega l’importanza del fattore economico. Ma ne cambia il valore. Certo che conta l’economia: ma nella fattispecie contano gli oltre 4 miliardi all’anno spesi solo per il marketing. L’abitudine al junk food, dice, è un fatto culturale. Un po’ perché nell’ultimo mezzo secolo – come spiega David Kessler nel libro "The End of Overeating" – le big companies hanno investito appunto miliardi nel pubblicizzare e rendere accettabile un modello di alimentazione che ha creato "il carnevale di cibo nel quale viviamo". E che naturalmente dall’America è andata alla conquista del mondo. Ma anche perché davvero il junk food crea assuefazione. L’ha provato uno studio dello Scripps Research Institute: la consumazione esagerata di cibo spazzatura "scatena un meccanismo di neurodipendenza". Lo stesso innesco che accende il consumo di droga. O di tabacco.

Bittman è uno chef salutista. E trae le sue conclusioni: se il meccanismo è di assuefazione culturale solo una grande campagna culturale può liberarci dalla dipendenza. Proprio come è successo per il tabacco. Però è lui stesso a riconoscere che a spingerci davanti alla cassa spesso non è solo l’addiction a quel cibo: è la comodità, per esempio, di ritrovarci il cibo già bell’e cotto. Questa per la verità è una caratteristica specialmente made in Usa. L’americano medio non conosce il piacere della cucina e della tavola apparecchiata che invece è (era?) culturalmente condiviso da noi mediterranei. Il "liberi tutti" che dai babyboomers in poi ha disintegrato il vecchio nucleo familiare ha fatto il resto. Ognuno mangia per sé: quando come e dove vuole.

Ma è proprio così? Dice la studiosa del cibo della New York University Marion Nestle (poche ironie: è senza accento) che "tutto quello che mangi che non sia fast food va benissimo: e cucinare anche una sola volta alla settimana è meglio che non cucinare proprio".

Vada per la bontà della cucina di casa: ma qui il discorso dei salutisti si morde la coda – che, si sa, non a tutti piace. Perché è vero che cucinare un pollo per quattro alla fine costerà pure 16 dollari invece dei 28 che una famigliola spende da McDonald’s. Va bene cenare in casa: ma se in tempi di magra un povero cristo vuol concendersi un po’ di relax dove lo trova un altro posto che lo serve per quella cifra? Senza contare che un conto appunto è la dipendenza e un conto è la frequentazione. Un conto è ingollarsi di hamburger e un conto, per esempio, buttarsi su quell’oatmeal – la zuppa d’avena – che qui in America nell’ultimo anno ha insediato al BigMac il primato di piatto più venduto. E che solo per un pigro slogan, caro il nostro Mark, continuiamo a chiamare spazzatura.
 

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