Quando nell’impianto numero 1
della centrale di Fukushima la
terra ha cominciato a tremare,
Masayuki Ishizawa è riuscito a
malapena a rimanere in piedi.
Con il casco di protezione in mano, è corso
fuori da un locale di servizio che si trova
all’esterno del reattore numero 3, vicino a
dove stava eseguendo con altri operai alcuni
lavori di manutenzione. Ha visto una ciminiera
e una gru oscillare come giunchi al
vento. E, ricorda, tutti urlavano in preda al
panico. Ishizawa, che ha 55 anni, si è precipitato
all’uscita principale della centrale,
ma l’addetto alla sicurezza non l’ha lasciato
passare. Davanti al cancello si era formata
una lunga fila di automobili e molti conducenti
suonavano il clacson freneticamente.
“Mi dia un documento d’identità”, gli ha
detto il sorvegliante, seguendo rigorosamente
la prassi. E ha aggiunto: “Dove sono
i suoi capi?”. “Ma cosa sta dicendo?”, ha urlato
Ishizawa. In quel momento si è guardato
alle spalle e ha visto una sagoma scura
all’orizzonte, in mezzo al mare. Ha urlato di
nuovo: “Non sa che sta arrivando uno tsunami?”.
Ishizawa, che alla ine è riuscito a passare,
non è un tecnico nucleare né un dipendente
della Tepco, l’azienda che gestisce
l’impianto colpito dal terremoto. È uno dei
tanti lavoratori temporanei, senza formazione
professionale, che svolgono le mansioni
più pericolose nelle centrali nucleari
giapponesi e di altri paesi, attratti dagli alti
compensi oferti a chi si espone alle radiazioni.
Secondo l’Agenzia giapponese per la
sicurezza nucleare e industriale (Nisa), nel
2010 gli operai temporanei si sono esposti a
livelli di radioattività 16 volte più alti rispetto
ai dipendenti della Tepco. Oggi questi
lavoratori hanno un ruolo decisivo nel limitare
i danni del disastro di Fukushima.
In Giappone la forza lavoro si divide in
due categorie: un’élite di dipendenti ben
pagati dalle principali aziende del paese e
una sottoclasse di lavoratori che guadagnano
poco, in condizioni di precarietà e con
scarse tutele. I lavoratori temporanei delle
centrali nucleari sono un caso emblematico.
Secondo alcuni, il ricorso a lavoratori
precari compromette la sicurezza dei 55 reattori
presenti in Giappone e mette a rischio
la salute di chi ci lavora. “È il volto nascosto
dell’industria nucleare”, spiega Yuko Fujita,
ex professore di fisica dell’università
Keio di Tokyo e attivista per il miglioramento
delle condizioni di lavoro nelle centrali.
“In ogni situazione a rischio si fa ricorso agli
operai temporanei, con gravi conseguenze
sia per la loro salute sia per la sicurezza”.
Secondo la Nisa, fra l’aprile del 2009 e il
marzo del 2010 l’88 per cento dei circa
83mila operai delle 18 centrali nucleari
giapponesi aveva un contratto temporaneo.
E nello stesso periodo, l’89 per cento dei
10.303 operai della centrale di Fukushima
aveva lo stesso tipo di contratto. Nell’industria
nucleare giapponese, l’élite è formata
da società come la Tepco e da grandi aziende
come Toshiba e Hitachi che costruiscono
gli impianti e si occupano della loro manutenzione.
Queste società, tuttavia, si
reggono su un sistema di appalti, subappalti
e sub-subappalti, con stipendi, diritti e
sistemi per proteggere i lavoratori dalle radiazioni
che si riducono passando dal vertice
alla base della piramide.
Le testimonianze di un gruppo di operai
che lavorano, o hanno lavorato, in varie
centrali, tra cui quella di Fukushima, trac-
tracciano
un quadro cupo. Gli operai devono
resistere a temperature altissime quando
rimuovono i depositi radioattivi dalle vasche
di contenimento dei reattori e dalle
vasche di combustibile esausto dei reattori
usando spugne e stracci (un’operazione necessaria
prima di ogni visita di ispettori,
tecnici o dipendenti della Tepco).
Molti di questi operai sono reclutati nei
cantieri edili, altri sono contadini del posto
che hanno bisogno di arrotondare lo stipendio
e altri ancora, secondo fonti che hanno
chiesto di rimanere anonime, sono ingaggiati
dalla malavita locale. Tutti vivono nel
terrore di essere licenziati, cercano di nascondere
le lesioni per evitare guai ai loro
datori di lavoro e usano bende adesive color
pelle per coprire tagli e contusioni. Stando
ai resoconti dei diretti interessati, nei luoghi
più pericolosi i livelli di radioattività sono
così alti che gli operai devono darsi il
cambio anche solo per aprire una valvola.
Nell’impianto di Fukushima, dove i tre reattori
in funzione al momento del terremoto
si sono spenti automaticamente, oggi
sono necessarie proprio operazioni di questo
tipo. “La priorità assoluta è evitare il
panku”, spiega un operaio di Fukushima
che chiede di rimanere anonimo. L’espressione
giapponese, che deriva dalla parola
inglese puncture, indica il punto in cui il dosimetro
che misura l’esposizione alle radiazioni
raggiunge il limite cumulativo giornaliero
di 50 millisievert. “Se lo superi perdi il
lavoro”.
Inaccessibile ai giornalisti
Takeshi Kawakami, 64 anni, ricorda che
durante un periodo di sospensione dell’attività
per lavori di manutenzione, negli anni
ottanta, entrò nella vasca del combustibile
esausto del reattore numero 1 della
centrale di Fukushima per rimuovere con
stracci e spazzole i depositi radioattivi dalle
pareti. Tutti gli operai erano muniti di un
dosimetro che emetteva un suono non appena
i livelli di esposizione raggiungevano
il massimo. Di solito Kawakami non resisteva
più di venti minuti. “Portavamo una
maschera strettissima, era insopportabile”,
racconta Kawakami. “A un certo punto cominciò
a girarmi la testa e non vidi più nulla.
Pensai che il sudore mi avrebbe sofocato”.
Dalla metà degli anni settanta a oggi,
una cinquantina di ex operai è stata risarcita
dopo essersi ammalata di leucemia e altre
forme di cancro. Gli esperti dicono che
in molti casi chi ha lavorato in una centrale
nucleare soffre di problemi di salute dovuti
alle mansioni svolte nell’impianto, ma
spesso è difficile dimostrare il legame. A
Kawakami è stato diagnosticato un tumore
gastrointestinale. Gli incidenti sul lavoro
sono all’ordine del giorno. Nell’ottobre del
2010 un operaio interinale, mentre stava
pulendo un edificio per le turbine, si è asciugato
accidentalmente il viso con un panno
contaminato. Da allora i responsabili della
Tepco si sono impegnati ufficialmente a
fornire agli operai degli appositi asciugamani
per il sudore.
Dopo il terremoto e lo tsunami dell’11
marzo, che hanno messo fuori uso l’impianto
e provocato la parziale fusione di alcuni
reattori, quasi tutti gli operai giornalieri sono
stati allontanati dalla centrale di Fukushima.
Quelli che sono tornati non possono
avere alcun contatto con i mezzi d’informazione,
e molti sono alloggiati in una base
speciale inaccessibile ai giornalisti. Ma a
quanto pare continuano a svolgere un ruolo
decisivo nella centrale. I due operai che a
ine marzo sono stati ricoverati in gravi condizioni
dopo essere venuti a contatto con
acqua radioattiva erano impiegati di aziende
subappaltatrici. Secondo quanto ha dichiarato
la Tepco, alla ine della prima settimana
di aprile, 21 operai dell’impianto erano
stati esposti a livelli di radioattività superiori
a 100 millisievert, il limite issato per le
situazioni di emergenza (a marzo la soglia è
stata alzata a 250 millisievert). La Tepco
non ha voluto speciicare quanti lavoratori
precari si siano esposti alle radiazioni, ma
ha dichiarato che dei circa 300 operai che a
inizio aprile erano rimasti nell’impianto, 45
lavoravano per imprese in subappalto.
Gli operai giornalieri sono spinti a tornare
nella centrale da compensi che aumentano
proporzionalmente ai rischi. Ishizawa
vive a meno di due chilometri dalla
centrale ed è stato sfollato con i suoi il giorno
dopo il terremoto. All’inizio di aprile il
suo ex datore di lavoro l’ha chiamato per
offrirgli una paga giornaliera di 28mila yen
(circa 238 euro) per due ore di servizio
nell’impianto di Fukushima: più del doppio
di quanto guadagnava prima. Alcuni suoi
ex colleghi hanno ricevuto oferte che arrivano
ino a ottantamila yen. Le proposte
variano a seconda dei progressi nella messa
in sicurezza dell’impianto e dei potenziali
rischi di contaminazione. Finora Ishizawa
ha sempre rifiutato.
Secondo gli esperti, nel corso degli anni
le condizioni di lavoro sono migliorate. Come
confermano le statistiche ufficiali, negli
anni novanta i livelli di esposizione per lavoratore
sono diminuiti grazie al miglioramento
degli standard di sicurezza. Ma dal
2000 la situazione è peggiorata, anche a
causa dell’aumento degli incidenti dovuti
all’invecchiamento dei reattori. Nel frattempo
è cresciuto anche il numero dei dipendenti
del settore: le stesse mansioni,
infatti, sono svolte da più operai per ridurre
i livelli di esposizione individuale. Tetsuen
Nakajima è il custode del tempio di Myotsuji,
nella città di Obama, vicino al mar del
Giappone. Si batte per i diritti dei lavoratori
dagli anni settanta, quando la società di servizi
energetici locale ha cominciato a costruire
reattori lungo la costa. Oggi ce ne
sono quindici. All’inizio degli anni ottanta
Nakajima ha contribuito a fondare il primo
sindacato giapponese dei lavoratori precari
degli impianti nucleari. All’apice della sua
popolarità, l’organizzazione aveva più di
180 iscritti, ma dopo poco un gruppo di criminali
ha cominciato ad aggredire i dirigenti.
In una sala fumatori del centro di evacuazione,
alcuni operai discutono se sia il
caso di tornare a lavorare nell’impianto di
Fukushima. Qualcuno dice che un lavoro in
un cantiere edile sembra più sicuro: il problema
è trovarlo. “Un buco nel terreno si
vede: le radiazioni no”, dice uno di loro.
“Può darsi che un giorno tornerò a lavorare
in una centrale nucleare, ma solo se l’alternativa
sarà morire di fame”, dice Ishizawa.
“Ho bisogno di un lavoro”, conclude, “ma
un lavoro sicuro”.
Fonte: Internazionale