
Giorni di studio e di attesa, per Giulio Tremonti.
L’intervento del premier in Parlamento, martedì
21 giugno, ha rilanciato contestualmente l’impegno
all’azzeramento del deficit e quello per la
riforma fiscale, definendo «surreale» ogni ipotesi
che il governo sia diviso e che Tremonti sia
isolato, a difesa del rigore. Le richieste della
Lega, avanzate la domenica precedente a
Pontida, toccano punti identitari (i ministeri
al Nord) e il rapporto con Silvio Berlusconi se il
governo non va avanti con le riforme. Ma in realtà
incidono su Tremonti solo per l’energico richiamo
a mutare il patto di stabilità interno, che impedisce
ai comuni virtuosi di riallocare in investimenti
e opere pubbliche gli avanzi di bilancio allocati
in posti diverse. Ora che le polemiche sono alle
spalle, viene il momento della verità: quello in cui
la strategia del ministro dell’Economia prenderà
in un paio di settimane la doppia forma che tutti
attendono. La manovra pluriennale per l’azzeramento
del deficit pubblico in tre anni. E la riforma
fiscale che chiedono tutti, da Confindustria a Cisl e
Uil, da Confcommercio a Confartigianato.
Ma chiariamo un punto prioritario, quello
politico. Sin qui è stato proprio davanti alla platea
della Confartigianato, il 14 giugno, che Tremonti
ha riservato l’intervento a più ampio spettro,
quello che a molti presenti ha fatto commentare
«un intervento da premier». Sbagliando in pieno,
però, perché al superministro non passa neanche
per la testa di mettere in discussione la premiership
di Berlusconi, ed esclude esplicitamente ogni sua
presenza in qualunque fantasmatica ipotesi di
governi di transizione in questa legislatura.
La linea «politica» di Tremonti in realtà è la stessa
da anni. Se gli elettori decidono un premier e una
coalizione, per cambiare bisogna ripassare per le
urne. Se un paese ha problemi di stabilità e credibilità,
che richiedono grandi riforme, e se l’elettorato
si divide in blocchi pressoché equivalenti, allora
può avere senso pensare a qualcosa di analogo a
ciò che in Germania portò alla Große Koalition
fra cristianosociali e socialdemocratici, e che gestì
per un tratto le riforme del welfare, i tagli alla spesa
pubblica e alle tasse, continuati poi da Gerhard
Schröder con Spd e Verdi, e da Angela Merkel con
i liberali in questi ultimi anni. Ma quello è l’unico
caso. I governi tecnici e di transizione, i governi
del capo dello Stato di cui molti fantasticano,
sono tutti privi di mandato elettorale. A Tremonti,
semplicemente, non interessano.
Il ministro lo pensa da prima della campagna
elettorale del 2008, ed è per questa stessa ragione
che riservatamente al premier, come ai vertici del
Pdl e della Lega, disse l’anno scorso che era meglio
andare al voto quando si era ancora forti nell’elettorato,
piuttosto che farsi indebolire dallo scandalo
del Rubygate e dal «partito» di Repubblica.
Prevalsa un’altra linea, il ministro ha continuato
nel suo lavoro. Innanzitutto ha cercato un rapporto
strettissimo con i colleghi dell’Eurogruppo e
dell’Ecofin, visto che da un anno e mezzo è aperta
la danza tragica dell’eurodebito, con la Grecia e
il Portogallo appesi a un filo sempre più tenue.
Dall’altra parte ha posto un’attenzione sempre
più maniacale sugli andamenti mensili della spesa
pubblica e daccorto, ma nel 2010, per la prima volta da anni
innumerevoli, il totale della spesa pubblica italiana
è diminuito in termini reali. Di un soffio, d’accordo,
ma abitualmente spesa ed entrate aumentano sempre.
Mentre a fine 2010 la spesa pubblica si è fermata a
793,5 miliardi, rispetto ai 797,5 dell’anno precedente.
Mentre le entrate totali pubbliche sono passate dai
715,7 miliardi del 2009 a 722,3 miliardi.
Negli anni futuri, però, la tendenza incrementale
della spesa riprende. Ed è questo capitolo che il
ministro ha messo nel mirino con la Ragioneria
generale dello Stato. Il consenso ricercato e ottenuto
dal ministro tra le associazioni d’impresa (la
Confindustria è intervenuta tre volte in una settimana
a suo sostegno), come dalla Cisl e dalla Uil
scese in piazza, ha aggiunto benzina alla possibilità
d’incidere sulla spesa. Va fatto, perché la riforma
fiscale possa contare su un margine
reale di copertura che si traduca
in allentamento strutturale della
pressione fiscale, invece di essere
semplicemente a parità di gettito.
Se si esaminano le tabelle del
Documento di economia e finanza,
precedente al voto amministrativo, si scopre che in
realtà la tanto temuta manovra da 40 miliardi entro
il 2014 avviene in costanza di aumento della spesa
come delle entrate. La spesa totale passerebbe dai
793 miliardi del 2010 a 860,8 miliardi; le entrate da
722 miliardi a 814. I 93 miliardi di entrate aggiuntive,
previsti a legislazione vigente, andrebbero per
soli 25 miliardi a copertura del deficit che occorre
delle entrate. Nessuno o quasi se n’è
dall’Economia proprio a cominciare dai
costi della politica. Ma il più della svolta
viene da altri capitoli, che pesano di più nel
bilancio pubblico.
Guardiamo le cifre, sempre a legislazione invariata.
I salari pubblici sono già bloccati, cioè in discesa in
termini reali rispetto alla crescita del pil: passano
dai 171,9 miliardi del 2010 a 172 nel 2014. Le spesa
in pensioni invece sale, eccome: dai 236 miliardi
2010 ai 270 del 2014. Ma è un capitolo tabù. Le
riforme sono state già approvate. Non ci si può rimettere
mano senza esplosione sindacale. Le spese
in conto capitale (quelle destinate a investimenti)
continueranno, purtroppo, a scendere, passando dai
53 miliardi 2010 ai 46 del 2014. Mentre le spese per
consumi intermedi della pubblica amministrazione,
quanto viene speso per le forniture pubbliche, quelle
salgono: da 137 miliardi a 147 nel 2014.
Su questa voce, finora, il ministro Tremonti
è riucito a imporre una diminuzione reale solo
alle forniture centrali dei ministeri, che pesano 27
miliardi, solo per il 20 per cento del totale, mentre
l’altro 80 viene speso dalle amministrazioni locali.
Con la sanità che da sola assorbe il 50 per cento dei
147 miliardi nel 2014. Negli anni tra 2004 e 2009
le forniture centrali sono aumentate solo del 17 per
cento, quelle dei comuni del 23 per cento, quelle
delle regioni del 37. E quelle della sanità del 50.
C’è «ciccia» superflua e vasta appropriazione
indebita a danno del Paese e della sua
crescita. Si può e si deve accelerare il
federalismo fiscale e l’introduzione
dei costi standard. Di qui possono
venire miliardi utili per la riforma
fiscale, oltre che dal disboscamento
di quei 13 punti di pil che costano al
fisco le contraddittorie detrazioni e
deduzioni offerte oggi a tanti «favoriti di
Stato» (vedere anche l’articolo a pag. 41).
Ma se poi Tremonti non dovesse vederlo,
il consenso necessario per questa
manovra? Di tirare a campare non ha voglia.
E il ministro di certo una riformetta
fiscale «tanto per fare» non la presenta.
Se manca il consenso ai tagli e alla
sua riforma, i casi sono due. O la
legislatura è finita, o si può fare a
meno di lui.
di Oscar Giannino