Non c’è nulla di peggio di una lunga, e inconcludente, rissa in famiglia, con le persone care e gli amici, con i vicini di casa e con i colleghi di lavoro. Tempo, soldi, e salute: i litigi infiniti portano solo questa somma di sprechi. E nulla di utile per nessuno.
Eppure esiste un metodo, antico, semplice e sostenibile, con il quale questi conflitti possono essere evitati prima, oppure risolti dopo, ma in tempi brevi.
Il metodo si chiama Indaba, che significa «affari» o «argomenti» e lo utilizzano a piene mani i capi tribù Zulu e Khosa, in Sud Africa. Funziona talmente bene, da essere adottato, talvolta, anche nei vertici internazionali, spesso inconcludenti e rissosi.
Le premesse sono due. Con la prima, ciascun partecipante è chiamato a illustrare le proprie posizioni, con chiarezza e senza demonizzare chi la pensa in modo diverso. Ma fa anche un passo avanti: ovvero indica il confine, il punto di mediazione, oltre il quale non può spingersi alla ricerca di un accordo. La seconda premessa è il lavoro laterale, quasi ai fianchi, dei facilitatori che partecipano agli incontri: tocca a loro, in concreto, tirare fuori le possibili sintesi, ovvero accordi che diventano poi condivisi.
La tecnica Indaba, molto utile in tempi di conflitti quotidiani che deprimono anche le relazioni sociali e umane, è un meccanismo per creare ponti, abbattere muri, cercare connessioni. Ed è quasi una filosofia, laddove il conflitto viene giudicato utile e necessario, ma mai a danno della perdita di un senso di comunità, della voglia di stare insieme. Di essere un noi, e non una somma di io che non riescono mai a fare la sintesi e così peggiorano la qualità della loro vita.
Con il metodo Indaba non si cerca una vittoria di una parte sull’altra, ma un terreno comune su cui costruire un accordo e le decisioni prese sono condivise, perché tutti si sentono coinvolti nel percorso che porta al compromesso, e quindi all’intesa e alla fine del conflitto.
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